3. Pavarotti da primo tenore a "tenorissimo".
Neppure gli entusiastici consensi ottenuti a San Francisco ed, ancor più, all’Arena di Verona convinsero Luciano Pavarotti ad inserire stabilmente Gioconda nel suo repertorio: il ruolo di ‘cattivo’ di Enzo Grimaldo (in realtà più causa involontaria, che artefice di tutti i mali che colpiscono la protagonista), non gli fece amare questo personaggio che abbandonò precocemente. Superata in scioltezza la stagione 1980-81 con appena cinque produzioni operistiche per soli tre titoli, Ballo in maschera, Elisir d’amore e Tosca, nella stagione successiva Pavarotti era atteso al già citato debutto in Aida ed al ritorno alla Scala in Lucia di Lammermoor.
Superato il primo con grande successo, a fianco delle due Price e della Toczyska, ma con tutti i dibattiti relativi al fatto se la sua voce fosse davvero adatta al ruolo di Radames, l’attenzione si portò immediatamente su una nuova produzione di Rigoletto al Metropolitan, di cui si era fatto artefice il direttore musicale del teatro newyorkese James Levine. Così il nostro tenore tornò a vestire i panni del prediletto Duca di Mantova e, spronato dalla lettura analitica del direttore americano, affrontò per la prima ed unica volta in teatro la cabaletta del secondo atto “Possente amor mi chiama”. Esiste un video che sancisce la notevole qualità di quella produzione cui parteciparono anche il soprano Christiane Eda-Pierre ed il baritono Louis Quilico.
Qualche giorno dopo, Pavarotti tornò sul palcoscenico del Met per una eccellente edizione della Luisa Miller a fianco di Katia Ricciarelli e Leo Nucci, diretta da Nello Santi. Era giunto, così, il momento del rientro in Italia per l’appuntamento con la Scala. Gli eventi non andarono nel modo migliore, Pavarotti si ammalò ed alla fine di comune accordo, teatro e tenore, decisero di rinviare Lucia di Lammermoor all’anno successivo. Una volta guarito, Pavarotti tornò sulle scene a fine marzo, facendo il debutto europeo in Aida al Teatro dell’Opera di Berlino, con Julia Varady, Stefania Toczyska e Dietrich Fischer-Dieskau.
Da alcuni anni il tenore modenese aveva coinvolto amici, musicisti di rango, in un ambizioso progetto internazionale per aiutare giovani cantanti lirici. I suoi compagni d’avventura avevano percorso in lungo ed in largo il mondo per selezionare le migliori giovani voci da portare alla finale del concorso a Filadelfia e nella primavera 1982, Pavarotti interpretò a fianco dei vincitori tre recite di Bohème e due di Elisir d’amore sotto la direzione di Oliviero de Fabritiis.
La stagione 1982-83 rappresentò un altro periodo tormentato. Musicalmente si identificò con il fermo proposito pavarottiano di debuttare nel ruolo mozartiano di Idomeneo, cantato prima al Metropolitan e poi, perfino, nella tana del lupo a Salisburgo. Il successo fu clamoroso in entrambi i teatri, ma nacque un insistito dibattito sull’idoneità di Pavarotti a cantare Mozart. Ci fu chi gridò al miracolo per la superba lettura scevra da manierismi e chi sostenne l’estraneità della vocalità pavarottiana con lo stile mozartiano. Ciò non di meno il tenore modenese ottenne due trionfali successi, in entrambe le occasioni sotto la direzione di James Levine.
Fra queste due performances, ci fu, però, un passo falso alla Scala. Correva il mese di marzo 1983 e Pavarotti aveva in contratto con il teatro milanese un ritorno articolato in un concerto (il quarto nella sala del Piermarini) ed in cinque recite di Lucia di Lammermoor. Si trattava per lui, di fatto, del ritorno sulle scene, dopo un’interruzione di un paio di mesi durante i quali, oltre alle vacanze natalizie, si era sottoposto ad un intervento chirurgico di pulizia delle corde vocali. Con tutta probabilità, sarebbe stato opportuno differire quell’impegnativo rientro, ma già l’anno prima Pavarotti aveva dovuto cancellare la Lucia alla Scala e, di conseguenza, non se la sentì di deludere nuovamente il pubblico milanese.
In realtà si presentò con la voce tirata nuovamente a lucido e superò trionfalmente il concerto del 7 marzo. Una settimana dopo, alla prima dell’opera di Donizetti, si propose col solito piglio ed ottenne ovazioni a scena aperta, anche dopo la difficile aria “Fra poco a me ricovero”. Giunto, però, alle ultime frasi di “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, alle parole “o bell’alma innamorata”, la sua voce subì una lieve incrinatura che bastò per scatenare un putiferio da parte di un nugolo di loggionisti o presunti tali. Alle repliche, il problema venne risolto ed il successo ritornò incondizionato.
La stagione successiva 1983-84 vide Pavarotti cimentarsi in solo quattro opere più una Messa da requiem a Parigi, sotto la direzione di Barenboim, ma proprio nel periodo del passaggio dell’anno, portò a buon fine il debutto in un altro titolo verdiano: Ernani. La vicenda si consumò sul palcoscenico del Metropolitan, dove, diretto da Levine, il tenore propose integralmente l’inedita ‘scena con cori’, finale del terzo atto che Verdi, in ossequio a Gioacchino Rossini, aveva composto per il tenore Nicola Ivanoff. Anche in questa circostanza l’esito fu di quelli che non lasciano dubbi e Pavarotti condivise il successo con Leona Mitchell, Sherrill Milnes e Ruggero Raimondi.
Il finale di stagione fu riservato all’Europa e, principalmente, ad Aida, interpretata con grande successo a Vienna ed a Londra. Ancora più scarno fu il programma della stagione 1984-85 che presentò solo tre opere: Tosca, cantata a Parigi, Vienna e Berlino; Bohème ed Elisir d’amore, entrambe a Vienna.
Tutto il programma di quel periodo venne scandito con la finalità di arrivare a dicembre a Milano nelle migliori condizioni possibili. Infatti, giunto a cinquant’anni suonati ed a quasi venticinque anni di carriera, finalmente Pavarotti si era visto proporre per la prima volta dalla Scala l’inaugurazione della stagione. Cantò dieci recite di Tosca al Metropolitan con la Caballé, la Zschau e MacNeil tra fine settembre e la prima metà d’ottobre, poi, a parte qualche concerto, si gettò in una full immersion di preparazione dell’Aida.
La sera di Sant’Ambrogio sul palcoscenico del tempio milanese e davanti a telecamere e microfoni Rai accesi per la diretta sia televisiva che radiofonica, Pavarotti ottenne uno dei più chiari ed entusiastici successi della sua carriera. Un’ovazione salutò, fin dall’inizio, la sua “Celeste Aida”, conclusa con un sibemolle smorzato (“morente”) come scritto da Verdi. Furono cinque recite encomiastiche per tutti gli interpreti, Maria Chiara, Ghena Dimitrova, Juan Pons, Nicolaj Ghiaurov, Paata Burchuladze ed il Maestro Lorin Maazel.
La restante parte della stagione vide il tenore impegnato in Luisa Miller a Vienna, ancora Aida al Metropolitan, ma soprattutto a concludere la seconda edizione del Concorso Internazionale di Canto di Filadelfia che avrebbe prodotto i giovani cantanti con i quali intendeva festeggiare a Modena il suo 25° Anniversario del debutto e, soprattutto, effettuare una clamorosa tournèe in Cina. In entrambe le occasioni l’opera prescelta fu l’immancabile Bohème, che, diretta come nel 1961 da Leone Magiera, vide alternarsi, nel ruolo di Mimì, Fiamma Izzo e Kallen Esperian.
Luciano Pavarotti - concerto del 1982
Se Aida fu un po’ l’opera identificativa degli anni fra il 1984 ed il 1985, la stagione 1986-87 divenne parimenti il periodo di Un ballo in maschera, che Pavarotti interpretò con grande successo a Vienna (con Abbado), Chicago ed ancora alla Scala, sotto la direzione di Gianandrea Gavazzeni. Terminate le recite scaligere, la meta successiva fu Bologna, dove al Teatro Comunale si ripresentò con una brillante edizione di Elisir d’amore, diretta da Donato Renzetti e con stupenda protagonista femminile Alida Ferrarini. Nucci e Taddei completarono il lussuoso cast.Il periodo italiano si concluse con una Messa da Requiem alla Scala, diretta da Riccardo Muti e con Cheryl Studer, Dolora Zajic e Samuel Ramey, anch’essa accolta con grande entusiasmo e che pose fine, di fatto, alla stagione.
Dopo una Bohème estiva al Colon di Buenos Aires ed una autunnale al Filarmonico di Verona, Pavarotti fece ritorno al Metropolitan con ben dieci recite di Trovatore, in una collaudata edizione diretta da Richard Bonynge e che ebbe quale Leonora Joan Sutherland, che nell’occasione diede il suo addio al teatro newyorchese. Al loro fianco si alternarono ben quattro Azucene, Livia Budai, Mignon Dunn, Elena Obraztsova e Shirley Verrett. A completare il cast, Leo Nucci, eccellente Conte di Luna, e Franco De Grandis, Ferrando.
Questa edizione del Trovatore fu certamente una delle migliori interpretazioni lasciate da Pavarotti nel capolavoro romantico verdiano: presentatosi in perfette condizioni di salute e di forma vocale, il tenore sfoderò tutta la sapienza della sua dizione, un fraseggio variegato ed accompagnato da un legato ineccepibile, cesellando da par suo l’aria fuori scena del primo atto, il “Mal reggendo” e l’ “Ah, sì ben mio”, e destando frenetico entusiasmo al termine del terzo atto. La parte successiva della stagione proseguì senza grandi sussulti, con quattro edizioni di Elisir d’amore a Berlino, Montecarlo, Vienna ed al Central Park di New York.
L’avvio della stagione 1988-89 fu meno brillante della precedente: il ritorno al Metropolitan con la ripresa del Trovatore (altre 10 recite), pur ottenendo grande successo, non lasciò il segno come l’edizione che l’aveva preceduta. Anche una Bohème a San Francisco con la Freni e diretta da Tiziano Severini non mostrò un Pavarotti all’apice della forma, che, però, tornò quasi d’incanto al suo rientro in Italia, dove, a Bologna, fu protagonista di una strepitosa edizione di Un ballo in maschera, considerata ancora oggi, una delle migliori in assoluto di Pavarotti. Sul podio del Teatro Comunale salì per l’occasione Gustav Kuhn che ebbe a dirigere artisti quali Maria Chiara, Patrizia Pace, Viorica Cortez e Paolo Coni.
A seguire, in territorio austriaco, andarono in scena due edizioni della Tosca: la prima, a Vienna, con la Kabaivanska e Wixell, diretta da Severini e la seconda, a Salisburgo, diretta da Karajan con la Barstow, Fondary e Tajo. Dopo l’impegnativa permanenza a Filadelfia, per una nuova, complessa edizione del Concorso Internazionale per cantanti lirici a lui intitolato, dove interpretò Luisa Miller, a fianco di Antonella Banaudi, ed Elisir d’amore, con Cinthya Lawrence, Pavarotti concluse la stagione con una prestigiosa edizione dell’Elisir con la Battle, Nucci, Pons e Plishka al Metropolitan.
Il rigurgito di smagliante forma che contraddistinse la seconda parte della precedente stagione fece avvertire i suoi benefici effetti anche all’inizio della nuova, che vide Pavarotti tornare inaspettatamente sul palcoscenico del Metropolitan (e per ben nove recite) nei panni del Duca di Mantova, ormai da tempo appesi nel guardaroba. Il risultato fu felicissimo ed il tenore condivise lo straordinario successo con June Anderson e Leo Nucci.
Si entrò così negli anni Novanta che videro Pavarotti ultimare un percorso ulteriormente indirizzato ad un progressivo, seppur lento, abbandono dell’attività operistica a favore dei concerti. Ma con un cambio di cliché: non solo i concerti classici con cui il tenore modenese aveva presentato programmi di eccellenza comprendenti un ampio arco musicale che andava dal seicento al novecento, bensì, mega concerti, diremmo oggi, nazional-popolari che richiamavano grandi partecipazioni di pubblico, anche in spazi enormi come stadi, arene, parchi, spesso abnormi per accogliere concerti e manifestazioni simili.
Pavarotti era diventato popolarissimo in tutto il mondo e tutte le piazze del pianeta se lo contendevano a suon di dollaroni, pur di ospitarlo. Si era messa in moto la macchina che trasformò in quegli anni il nostro cantante da uno dei più grandi tenori della storia dell’opera lirica a “Tenorissimo”, cioè a cantante iper-mediatico a cui tutti i rotocalchi ed i media in generale erano interessati. E questo appeal era giustificato dal sostegno a “furor di popolo” che ovunque riusciva ad ottenere. Il grande scrittore e critico musicale Rodolfo Celletti, notissimo esperto di voci, nei lontani primi anni settanta, aveva sostenuto che Pavarotti, per il suo modo di cantare, di porgere, per l’affettuosità che ispirava, avrebbe potuto aprire la guida telefonica e cominciare a cantare quella: il pubblico l’avrebbe ascoltato soggiogato e acclamato ugualmente. Beh, Celletti non era andato tanto lontano!
L’inizio del 1990 fu all’insegna dei Campionati mondiali di calcio che si svolgevano in Italia e Pavarotti diede la disponibilità a sostenere l’iniziativa: così aprì la manifestazione con un concerto al Palazzetto dello sport di Milano, alla presenza di organizzatori, personalità del mondo calcistico, giocatori. La sede non fu adeguata al tipo di manifestazione e, benché il tenore avesse espresso ancora una volta la sua grande personalità vocale, non può essere ricordato fra i concerti indimenticabili come i quattro tenuti alla Scala.
Il trasferimento a Firenze che seguì, fu praticamente immediato. Ad attenderlo c’erano le prove dello spettacolo inaugurale del Maggio Musicale Fiorentino: un Trovatore attesissimo, diretto da Zubin Metha e con l’importante debutto di un giovane, promettentissimo soprano, Antonella Banaudi, uscita dal concorso di Filadelfia. Con lei, avevano iniziato le prove Dolora Zajick e Giorgio Zancanaro. Trasmessa dalla Rai in diretta radiofonica e differita televisiva, l’opera verdiana riscosse i favori del pubblico e della critica.
Intanto erano in pieno svolgimento i campionati del mondo di calcio e gli organizzatori, con la collaborazione del Maestro Zubin Metha e dello stesso Pavarotti, erano riusciti a mettere insieme, per la vigilia della finalissima, una manifestazione che aveva del sensazionale: si trattava di un concerto a cui avrebbero partecipato contemporaneamente lo stesso Pavarotti, Josè Carreras e Placido Domingo. Non era mai accaduto che tre fra i maggiori tenori di un’epoca salissero insieme sullo stesso palcoscenico. Il concerto si tenne alle Terme di Caracalla il 7 luglio 1990 ed ottenne grandi consensi, anche se non furono in pochi a storcere il naso.
Quest’iniziativa dei Tre Tenori, ideata per il mondo del calcio, fu ripetuta per i mondiali in America nel 1994, poi iniziò ad inflazionare ed i concerti cominciarono a susseguirsi in Giappone, a Londra, a Vienna, finché il quotidiano tedesco Der Spiegel dedicò loro la prima pagina per una stroncatura senza precedenti e con la denuncia dei soli scopi commerciali che l’iniziativa aveva assunto. Nonostante ciò, i Tre Tenori continuarono ad esibirsi per un'ulteriore quindicina di concerti (che portarono il totale a trentaquattro) fino al 7 agosto 2003, acclamati dai pubblici di ogni dove, senza dare, peraltro, alcun valore aggiunto alla loro arte. Per Pavarotti, la stagione si concluse con un Requiem verdiano all’Arena di Verona, diretto da Lorin Maazel ed interpretato assieme a Sharon Sweet, Dolora Zajick e Paul Plishka.
La stagione successiva prese avvio dal Metropolitan dove il tenore ricomparve nel Cavaliere della rosa ed in Un ballo in maschera, a fianco di Aprile Millo e Juan Pons, ma l’anno si concluse ancora a Roma con una splendida Tosca diretta da Daniel Oren ed interpretata da Raina Kabaivanska e Ingvar Wixell al Teatro dell’Opera.
Il periodo che stiamo descrivendo venne caratterizzato anche da intenso studio. A fianco del fido e puntualissimo Leone Magiera, Pavarotti si stava preparando al debutto in Otello, che sarebbe avvenuto nell’aprile successivo. Già nell’estate, i due si erano recati nella residenza estiva di Georg Solti, in Toscana, per prendere confidenza con le vedute del direttore magiaro relative all’opera, poi la preparazione si era trasferita, prima, tra Modena e Pesaro, poi, in America.
Subito all’inizio del 1991, Pavarotti, si trasferì a New York, dove, tanto per distrarsi dal dramma della gelosia, interpretò al Metropolitan, una dietro l’altra Un ballo in maschera, Luisa Miller, Il pipistrello e Der Rosenkavalier; poi si trasferì a Chicago per iniziare le prove di Otello. Purtroppo, si prese quasi subito un terribile raffreddore con annessa costipazione. L’opera, che sarebbe stata presentata in forma di concerto per produrre nel contempo l’incisione discografica live della Decca, non poteva essere rinviata per via delle troppe manifestazioni collaterali che erano state organizzate. Così Pavarotti dovette andare in scena armato di aspirine, acqua, tisane ed altre stregonerie che il tenore si tenne vicine al proprio leggìo. L’esibizione fu apprezzata, ma i postumi influenzali furono evidenti nelle due recite ai bordi del Lago Michigan.
Fortunatamente erano previste anche due recite alla Carnegie Hall di New York e lì il tenore modenese si presentò in gran forma, cosa che non guastò mai nel corso della sua carriera, ma che, nella circostanza, lo portò a strafare, distraendolo da una linea interpretativa che, se si fosse rifatta all’esempio di Lauri Volpi, avrebbe realizzato un approccio coerente con la sua vocalità. Pavarotti cantò benissimo, ma - con l’intento di dimostrare che l’incompleta prestazione di Chicago era solo dovuta alla malattia e che egli era in grado di superare tutte le difficoltà di Otello - preferì mettere in evidenza soprattutto l’aspetto vocale. Insomma, una prova di forza che non giovò al risultato complessivo che sarebbe potuto risultare più variegato ed esaustivo.
Il 1992 fu, invece, l’anno del debutto nei Pagliacci, ancora in forma di concerto per l’analoga motivazione di realizzare l’incisione discografica della Philips. A fianco di Pavarotti e sotto la direzione di Riccardo Muti, cantarono Daniela Dessì, Juan Pons, Ernesto Gavazzi e Paolo Coni. I concerti furono due e si tennero, uno, alla Accademy of Music di Filadelfia e, l’altro, ancora alla Carnegie Hall di New York.
Nel mese di settembre, dopo una Tosca al Covent Garden, Pavarotti tornò a Modena per dar vita ad un evento da lui stesso voluto ed organizzato a fini umanitari: il Pavarotti International. Si trattava di un mega-concerto con la partecipazione di tante stelle internazionali della musica pop che si sarebbero esibite anche in duetti con lo stesso Pavarotti. Ebbe inizio così la serie di concerti pop, che poi prenderà il nome di Pavarotti and Friends, con i cui ricavati sarebbero stati finanziati progetti di carattere umanitario soprattutto a favore dei bambini colpiti dalla sventura della guerra. Questi concerti si protrassero fino al 2003 e, cioè, fino a quando la Rai decise di patrocinare la manifestazione: quindi, si conclusero all’undicesima edizione.
Il 7 dicembre 1992, Pavarotti fece ritorno alla Scala per partecipare al suo secondo spettacolo inaugurale. L’opera in cartellone era Don Carlo: si trattava, quindi, di un nuovo debutto. La prima non fu felicissima per il tenore, che svirgolò il si naturale della scena dell’Autodafé, creando i soliti scomposti dissensi di una parte dei loggionisti, ma le repliche e la ripresa televisiva, trasferita su Dvd, furono felicissime e l’ascolto odierno dice quanto valore ci fosse in quell’edizione dell’opera verdiana. Per la cronaca sul podio scaligero, nell’occasione, salì Riccardo Muti ed a fianco di Pavarotti cantarono Daniela Dessì, Luciana d’Intino, Samuel Ramey e Paolo Coni.
Saltato, nel mese di febbraio 1993, il debutto alla Scala nei Pagliacci per seri problemi di salute che lo tennero lontano dai palcoscenici di qualsivoglia teatro per un lungo periodo, Pavarotti tornò alle scene solo a fine maggio per cinque recite di Elisir d’Amore che il Metropolitan portò in tournée in Giappone. Il ritorno vero e proprio al Met avvenne nel mese di settembre per lo spettacolo inaugurale, in cui Pavarotti interpretò il primo atto di Otello con Kallen Esperian e Sherrill Milnes, sotto la direzione di James Levine.
La grande attesa, però, era tutta riservata ad uno spettacolo prestigioso: la prima rappresentazione assoluta in America dei Lombardi alla Prima Crociata di Giuseppe Verdi, in cartellone per un lungo periodo a cavallo fra dicembre 1993 e gennaio 1994. L’opera ebbe grandissimo successo: venne mandata in onda la ripresa televisiva e ben due recite furono trasmesse per radio. Pavarotti prese parte a 10 recite a fianco di Aprile Millo (che si alternava con Lauren Flanigan), Samuel Ramey e Bruno Beccaria, ancora una volta diretti da James Levine.
Poche furono, invece, le recite operistiche che seguirono, fino al trionfale debutto nei Pagliacci, con cui Pavarotti partecipò all’ennesimo spettacolo inaugurale della nuova stagione del Metropolitan, nel settembre 1994. Trasmessa per radio e televisione, l’opera di Leoncavallo registrò un successo clamoroso di cui il tenore modenese fu parte preponderante. Gli altri interpreti furono Teresa Stratas e Juan Pons. Il 1° dicembre sempre del ’94 ci fu l’importante ritorno al San Carlo di Napoli in Un ballo un maschera, diretto da Oren e con Nina Rautio e Paolo Coni. Pavarotti giunse nel capoluogo partenopeo costipato, ma andò via via riprendendosi, non mancando ad alcun appuntamento.
Nel novembre 1995 si verificò l’improvvida ripresa della gloriosa Fille du régiment, che, complice anche una pesante influenza, si rivelò una sorta di catastrofe. Superata con successo la ‘prima’, alla seconda recita, fu costretto a dare forfait dopo un infelice primo atto ed a lasciare il ruolo di Tonio a Jean-Luc Viala. Assunta una massiccia dose di antibiotici, Pavarotti riuscì a rientrare felicemente alla quinta recita, il 18 novembre, ed a partecipare anche alle due successive.
Il 1° febbraio 1996, insieme a Mirella Freni, partecipò alle celebrazioni del Centenario della Bohème, al teatro Regio di Torino, che vennero trasmesse in diretta sia radiofonica che televisiva dalla Rai. Partecipò a due recite del capolavoro pucciniano a fianco anche di Annarita Taliento, Lucio Gallo e Nicolaj Ghiaurov, sotto la direzione di Daniel Oren.
L’ultimo debutto di Pavarotti si consumò al Metropolitan a fine stagione 1995-96 con Andrea Chenier; l’opera di Giordano riscosse tali consensi di pubblico che l’opera venne subito riproposta come spettacolo inaugurale della stagione successiva. A fianco di Pavarotti, nelle due occasioni cantarono Aprile Millo e Maria Guleghina, oltre a Juan Pons e Paul Plishka, direttore Levine.
Nel mese di gennaio 1997, Pavarotti si ritrovò al centro di veementi polemiche per il mancato debutto in Forza del destino: la direzione artistica del Met era riuscita a strappare al tenore modenese il consenso a vestire i panni di Don Alvaro, ma all’ultimo momento, il teatro newyorkese, con un glaciale comunicato, informò l’opinione pubblica, che, per scelta di Luciano Pavarotti, La forza del destino veniva sostituita da Un ballo in maschera. I media, come detto, si scatenarono contro il tenore che, invece, venne accolto dal pubblico con scroscianti applausi.
Per ricompensare i suoi spettatori per tanto affetto e stima, Pavarotti diede subito la disponibilità a cantare Turandot nello spettacolo inaugurale 1997-98. Al suo fianco, sotto la direzione di James Levine, cantarono Jane Eaglen, Hei-Kyung Hong e Roberto Scandiuzzi. Il successo fu encomiastico, anche perché il sessantaduenne tenore modenese sfoderò il suo proverbiale ‘do’ al termine del secondo atto, oltre a ricevere il consueto apprezzamento per il celeberrimo “Nessun dorma”.
Subito dopo volò a Napoli per partecipare alle celebrazioni del Bicentenario donizettiano e sul palcoscenico del San Carlo interpretò quello che sarà il suo ultimo Elisir d’amore in Europa. Le condizioni generali di Pavarotti non erano eccellenti ed il nervosismo ad esse correlato provocò uno strappo piuttosto forte con Richard Bonynge, che avrebbe dovuto dirigere quelle recite. Venne chiamato in sua vece Marcello Panni che condusse in porto l’opera interpretata anche da Cynthia Lawrence, Enzo Dara e Roberto de Candia.
Solo poche recite di Tosca a New York ed a Roma (per l’edizione del centenario) separarono il pubblico dall’ultimo acuto del nostro tenore, sfoderato per le celebrazioni del Centenario Verdiano, nei panni di Radames. Ormai sessantaseienne Pavarotti cantò Aida a fianco di Deborah Voigt, Olga Borodina e Mark Delavan, sotto la direzione di James Levine, interpretando, davanti ai microfoni della radio americana, anche la recita del 27 gennaio 2001, nel giorno esatto dei cento anni dalla morte del grande compositore.
Dopo una dolorosa Tosca londinese (gennaio 2002), durante le cui prove a Pavarotti venne a mancare la mamma Adele, il tenore rimase lontano dai palcoscenici per due anni. Nel marzo 2004 tornò sulle scene del Metropolitan, ancora in Tosca, ma il suo ritorno fu accompagnato dall’annuncio che la terza recita, quella del 13 marzo, sarebbe stata anche quella del suo definitivo addio alle scene.
Della recita del 10 marzo esiste la registrazione che dimostra come Pavarotti sia giunto a quasi settant’anni con una freschezza vocale invidiabile ed, a parte qualche inevitabile discrepanza nei fiati, come avrebbe potuto continuare ancora a calcare le scene se la salute non gli avesse imposto quella prudente e saggia interruzione.
Pavarotti continuò, invece, ad esibirsi in concerti di commiato in giro per il mondo ancora per un anno e mezzo fino al 14 dicembre 2005 al Thaichung Stadium, ultimo appuntamento di un lungo tour in Cina. A dirigere l’orchestra di questo suo ultimo concerto fu ancora una volta Leone Magiera e con il soprano Annalisa Raspagliosi eseguì per l’ultima volta il finale del primo atto della Bohème.
Si concludeva così la straordinaria carriera di Luciano Pavarotti: una malattia di quelle che non lasciano scampo lo allontanò, prima, dalle scene e, poi, dalla vita. Così come smise con grande dignità i panni di Cavaradossi dopo l’ultima recita di Tosca, con altrettanta dignità accolse la malattia, non rinunciando per questo, e fino all’ultimo, ad aiutare gratuitamente molti giovani cantanti lirici pieni di speranze.
Oggi si chiacchiera ancora su vicende personali del Tenore, ancora si ricorre per ricordarlo ad immagini che deformano la sua figura e la sua portata storica. Ma restano le 375 produzioni operistiche per oltre 1000 recite che parlano di Lui. Laddove gli uomini non riescono o non vogliono andare oltre, i fatti raccontano e tramandano chi sia stato davvero Luciano Pavarotti.
In ultimo vogliamo fornire una nota interpretativa di questa serie di articoli. Non abbiamo volutamente parlato della infinita serie di concerti, per lo più classici, tenuti dal grande Tenore, per evitare che questo ricordo di Luciano Pavarotti diventasse, ancora di più, un’arida elencazione di eventi o brani eseguiti. Ma un dato di sintesi vogliamo darlo ai nostri lettori con riferimento ai ben quattro concerti che il Tenore (unico cantante nella storia) ha tenuto nel sommo tempio del Teatro alla Scala, per dare un esempio di quanto fosse il suo impegno ed il suo rispetto per il pubblico ed il teatro milanese.
Ebbene in questi quattro concerti interpretò ben 74 brani, di cui 55 una sola volta e 19 in più di un concerto. I pezzi operistici cantati furono tratti dalle seguenti opere. Don Giovanni, Orfeo ed Euridice, L’elisir d’amore, L’Africana, I Lombardi alla Prima Crociata, Luisa Miller, Rigoletto, La traviata, Aida, Messa da Requiem, Tosca, Manon Lescaut, Turandot, Werther, e Arlesiana. Ad essi si aggiunsero tutte le pagine da camera dal seicento al novecento, da Bononcini a Tosti. Questo fu lo schema col quale Pavarotti organizzò tutti i suoi oltre duemila concerti.
Fortunatamente ci ha lasciato un’immensa discografia e, soprattutto, oggi sono reperibili nella discografia cosiddetta pirata, ma anche su Youtube, moltissime fra le sue interpretazioni operistiche registrate dal vivo in tutti i teatri del mondo.
Antonio Colli