Per il 51° ciclo di rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, organizzato dall’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico), in programmazione in queste settimane la Medea di Seneca, ispirata a uno dei soggetti mitologici principali, fonte di ispirazione per millenni ripresa anche nel teatro d’opera e nel cinema.
Lo spettacolo al quale abbiamo assistito nella splendida cornice siracusana è stato affascinante sotto ogni punto di vista: il testo, proposto nella nuova traduzione di Giusto Picone per la regia di Paolo Magelli, colpisce per l’“espressionismo” con cui Medea, non accettando le imposizioni del potere, si ritrova ad agire contro natura. La risolutezza con cui la protagonista cerca di trovare una via di mezzo (o meglio di fuga!) fra le pareti del labirinto della costrizione nel quale è stata calata, la porta ad agire come una folle contro tutti. Eccellente l’interpretazione di Valentina Banci: corpo e voce sono protesi nel far emergere tutta la smania del torto subito che la spinge sino al folle sacrificio dei figli. Inesauribile durante tutta la recita, la Banci effonde ogni energia che ha in corpo verso un pubblico che la ringrazia calorosamente per le emozioni ricevute. La sua bravura è esaltata da una regia che spinge sulla psicologia di Medea e che usa il coro non come un commentatore esterno, ma come catalizzatore del tragico percorso della protagonista. Le voci non agiscono sempre all’unisono, ma a volte vengono spezzate pur non tradendo l’unità del coro: il senso del discorso non sarebbe chiaro se ognuno non dicesse singolarmente la propria parola; l’effetto è sorprendente e coinvolge anche nei lunghi passaggi corali. Proprio questa interazione fra coro e protagonista e le musiche originali di Arturo Annecchino, usate nei momenti cruciali della tragedia, amplifica l’effetto sul pubblico e stimola ancora oggi una riflessione su questo personaggio mitologico.
Anche per questi motivi, la figura di Medea ha affascinato autori e drammaturghi di tutte le epoche: la prima fonte su Medea è quella delle “Argonautiche” di Apollonio Rodio sulla quale, nel 431 a.C., per le Grandi Dionisie, Euripide baserà la celeberrima tragedia, futuro modello di riferimento per tutti coloro che di Medea vorranno parlare. In epoca romana saranno tre gli autori che riproporranno questo soggetto: Ennio, Ovidio e Seneca. È però solo quest’ultimo ad apportare delle modifiche incisive che trasformano Medea in un personaggio mosso dal furor e non dalla razionalità euripidea, così come Giàsone da freddo e sprezzante nei confronti della maga, agisce mosso dalla pietas per i figli e dal timore ossessivo nei confronti del potere (identificato coi re Creonte e Acàsto). Nella vicenda si ha un’altra innovazione che avrà nel corso dei secoli enormi ripercussioni teatrali: l’assassinio dei figli da parte di Medea non viene più raccontato al pubblico da un nunzio, ma si svolge in scena sotto gli occhi di tutti.
Se per ritrovare Medea sulla scena del teatro di prosa si dovrà aspettare il 1821, con l’ultimo capitolo della trilogia di Franz Grillparzer “Il Vello d’oro”, nel teatro musicale questo soggetto è presente fin dal 1649 col “Giasone” di Francesco Cavalli su libretto di Cicognini che, appunto, si ispira liberamente alle “Argonautiche” di Apollonio Rodio. Il “Giasone” di Cavalli non porta in scena la “vera” tragedia di Medea, poiché rispetta tutte le caratteristiche dell’opera del Seicento che includono la compresenza di scene e di personaggi sia seri che buffi, rappresentate ad esempio dalle arie di lamento di Isifile (sostituzione della principessa Creusa) o dal servo balbuziente Demo, nonché il lieto fine e la costante presenza degli dei. La figura di Medea viene utilizzata per le scene infere che, nell’opera barocca, riscuotono un incredibile successo. Dopo l’esperienza di Cavalli, ci sono altre tre versioni di Medea: due per l’Opéra (nel 1693 la “Médée di Charnel e nel 1713 “Médée et Jason” di Joseph-François Solomon) e una in Germania con la “Medea” di Georg Benda nel 1775.
Sul finire del XVIII secolo Luigi Cherubini musica la sua “Medée”, precisamente nel 1797 per il Teatro Feydeau di Parigi, cui seguono nel 1813 e nel 1845 le versioni di Mayr per il San Carlo di Napoli e di Pacini per il Real Teatro Carolingio di Palermo. La più importante è senza ombra di dubbio quella di Cherubini, considerata da Brahms «Vetta suprema della musica drammatica». Medea rappresenta per Cherubini il soggetto ideale per esprimere il gusto neoclassico che si era consolidato in tutta Europa, unendo la tragicità della cultura greca (la Medea di Euripide) ad una partitura dal forte impatto drammatico. Con questo lavoro si riporta in scena il mito: l’opera nasce coi dialoghi parlati per rispettare i canoni dell’opéra-comique, ma nel 1854 vengono sostituiti con recitativi cantati da Franz Lechner per la messa in scena all’Opera di Francoforte. Interprete indimenticabile in questo ruolo è, negli anni Cinquanta del XX secolo, Maria Callas che, senza saperlo, sarebbe stata il ponte fra l’opera ed il cinema, interpretando lo stesso ruolo per la “Medea” di Pier Paolo Pasolini nel 1970; il regista italiano impregna la tragedia di Euripide della contemporaneità, interpretando il mondo della maga come “sottoproletario” (come lui stesso lo definì) e contrapponendolo a quello “borghese” di Giasone, da cui viene respinto.
L’impatto che questo mito ha e continua ad avere sul pubblico non può lasciare indifferenti: riconoscersi, entrare in totale empatia con un personaggio creato migliaia di anni fa, attraverso il quale è ancora possibile riflettere su sé stessi e sull’intera umanità, è una probabile via di interpretazione per spiegare come sia stato possibile, nel corso della storia delle arti, che Medea sia stata la protagonista di tanti capolavori, ancora oggi riconosciuti tali.
Walter Vitale