Sommario
Il maestro Bruno Nicoli è un entusiasta e quella che doveva essere una semplice intervista diventa una lunga conversazione tra persone che amano la musica, fitta di ricordi e scoperte interessanti. Ha il volto sereno, lo sguardo limpido e diretto, una parlata che riporta alla sua terra d’origine: “Sono di Carrara, abbiamo la testa dura!” ci dirà nel corso dell’intervista. La conoscenza, nata al Festival Pucciniano dove nel 2014 ha diretto il Trittico e quest’estate Turandot, ha fatto nascere il desiderio di approfondire a bocce ferme tanti argomenti: primo fra tutti la mancata esecuzione dei “quattro finali di Turandot”. La vicenda è nota e la riassumiamo in due parole: il cartellone del Festival Pucciniano 2015, annunciato l’autunno scorso, prevedeva un convegno internazionale dedicato ai “quattro finali” e la conclusione sempre diversa delle recite: una volta con il finale Berio, una con la prima versione consegnata da Alfano, una con il corteo funebre di Liù, una con il finale Alfano come abbreviato e modificato su richiesta di Toscanini, che è quello “solito”. Per motivi noti solo in parte, il convegno è stato cancellato e tutte le recite si sono concluse con l’esecuzione di Turandot con il finale Alfano-Toscanini.
Ti senti particolarmente portato per Puccini?
Sì, anche se la prima opera che ho sentito è stata il Trovatore, al Politeama Verdi di Carrara che ora purtroppo sta cadendo a pezzi: avevo otto anni e per me fu una bomba emotiva. Decisi che mi sarei occupato di opera, non sapevo come, ma lo avevo deciso. Per alcuni anni Verdi mi pareva più “orecchiabile” di Puccini, forse un bambino sente maggiormente il tonalismo di Verdi; però negli studi di composizione, soprattutto alla fine quando si fa la “scena lirica”, la strumentazione di Puccini è di importanza fondamentale … e anche il suo senso schietto del teatro. Noi, perché amiamo la musica, pensiamo soprattutto alle melodie, ma Puccini aveva dentro, come Verdi, un perfetto senso del ritmo drammatico e teatrale nel quale inserirle. Nulla di ciò che ha scritto era bello di per sé e basta, lo scriveva sempre in un contesto di funzionalità drammatica … e gli impasti orchestrali … e il trattamento della linea vocale! E poi son cresciuto anche io al Boccherini [l’istituto musicale superiore di Lucca, di cui era stato allievo Puccini]: i luoghi sono quelli…ho respirato l’aria di Puccini e ho cercato, nei miei limiti, di onorarlo, soprattutto al Festival con il quale ho un legame di affetto e gratitudine. Ho vissuto grandi gioie a Torre del Lago, partendo dalla mia adolescenza, quando ascoltai la Dimitrova cantare Turandot, fino ad oggi, in cui ho avuto la soddisfazione di dirigere la grande donna e artista che è Giovanna Casolla. Ho ricevuto tanto dal Festival, da alcuni suoi dirigenti, dai suoi appassionatissimi lavoratori.
Secondo te Puccini, a casa sua, viene onorato nel modo giusto o sarebbe possibile fare di più?
Dipende dalle circostanze e dai fini con cui si fanno certe operazioni. L’idea di far riprendere Puccini dai grandi del pop, lanciata dal presidente Veronesi già durante la sua personale campagna elettorale per le elezioni politiche al comune di Viareggio, (il valore simbolico-intellettuale del contesto credo non abbia bisogno di ulteriori commenti), a mio parere ha un valore culturale pressoché nullo; non mi pare pertinente con il Festival Pucciniano prendere delle trame, ché poi si tratterebbe di questo, e farle riscrivere totalmente in maniera moderna. Sarebbe molto meglio fare delle opere del periodo di Puccini e rappresentarle con adeguati collegamenti culturali … Penso che ci dovrebbe essere tutta una parte di studio e di approfondimento musicologico su Puccini e la sua epoca: l’occasione dovrebbe essere proprio il Festival. Sia per la casa di Puccini, sia per la vicinanza con il Centro Studi Pucciniani di Lucca, dove se non a Torre del Lago si potrebbe veramente organizzare e divulgare un approfondimento degli infiniti aspetti di Puccini? Pensate ai rapporti con gli altri musicisti, al passaggio dalla musica dell’Ottocento a quella del Novecento, perché Puccini è stato un grande traghettatore … e poi il discorso della popolarità, di questo incredibile equilibrio tra l’immediatezza di molte delle sue melodie e delle sue opere e la grande profondità di scrittura. Perché si parla sempre di Puccini come di un autore popolare, come se fosse quasi un marchio di per sé negativo; se noi apriamo una sua partitura, per esempio la Fanciulla del West, ecco che ci immaginiamo l’America, il West, le colonne sonore successive, ci immaginiamo anche il mercato … ma in quel contesto emerge una poderosa sapienza di scrittura e di teatro. Anche gli influssi culturali che lui aveva comunque analizzato erano i più importanti e profondi della sua epoca. Lui andava a sentire il Pierrot lunaire … poi diceva che era “roba da matti”, però andava a sentirlo! Andava a sentire Stravinskij: tutto rientra in quella sua grande capacità di captare quello che gli interessava … e questo riemerge poi nella sua opera. Quindi anche dei paralleli con tanta musica del Novecento sarebbero possibili.
Forse non è molto noto che nell’estate 1889, subito dopo il deludente esito di Edgàr, Giulio Ricordi, ormai in possesso dei diritti per Wagner, mandò Puccini a Bayreuth con l’incarico di ridurre i Maestri cantori per i teatri italiani; la sua versione, con molti tagli e qualche raccordo, inaugurò la stagione successiva della Scala e rimase a lungo quella in cui l’opera fu più conosciuta qui da noi. Sarebbe interessante farla riascoltare… tirandosi ovviamente addosso pucciniani e wagneriani insieme.
Anche in questo viene fuori la sua praticità: i compositori in genere sono molto concreti ed elastici, molto spesso più degli studiosi che di loro si occupano con il massimo scrupolo, come è giusto che sia. Chissà Puccini quanto avrebbe usato dei suoi schizzi del finale di Turandot…eppure, così come fossero testi religiosi, anche i testi “musicali” dei grandi poi diventano sacri, intoccabili, dogmi… Ma lui era un uomo di teatro e aveva una grande elasticità nel maneggiare tutta la musica, anche altrui nel caso di Wagner, in modo artigianale. Dette anche il permesso di eseguire le trascrizioni di sua musica fatte da Tavan: una cosa un po’ da café chantant, con le sue melodie messe insieme, tagliate e riarrangiate per un piccolo organico. Questo mostra che lui non ha mai considerato i suoi testi come qualcosa di sacro, così come molti dei grandi compositori del passato e come anche i contemporanei che ho avuto la fortuna di vedere alla Scala. Anche lo stesso Berio che ho visto lavorare … un grande musicista … uno che si divertiva veramente … insomma, tu vedi questi compositori che provano lavorando con l’orchestra e cambiano al volo quello che reputano non vada bene. Qui mi riaggancio ai finali di Turandot: il paradosso degli schizzi lasciati da Puccini è che sono in larga parte a pezzi e bocconi, come si direbbe dalle mie parti … brevi, (a parte due), per solo pianoforte e voce, più qualche accenno di linea sovrapposta nel migliore dei casi, ma secondo la Ricordi e Toscanini sarebbero dovuti diventare tutti utilizzabili o quasi. Questa loro “sacralità” è stata spesso ripresa nella critica ai finali con un approccio molto intellettuale e dogmatico, in contrasto con la logica di chi compone. Paradossalmente persino Berio è stato elogiato per aver utilizzato quasi tutto il materiale di Puccini come fosse più fedele a lui rispetto ad Alfano, ma sappiamo benissimo che l’omaggio di Berio ha un valore chiaramente simbolico. Il suo finale non ha nulla a che vedere con la tecnica che Puccini avrebbe usato per elaborare quegli abbozzi, né lo pretende. Poteva anche aver ragione Alfano che ha usato gli schizzi il minimo indispensabile, convinto che Puccini alla fine non li avrebbe impiegati tutti, poi certo c’è un discorso di coerenza stilistica con Puccini che sarebbe stata necessaria, e da parte sua ci fu assai poco … anche di questo avrei parlato nella conferenza prevista e poi annullata.
Con i primi due atti e tre quarti già stampati, che cosa avrebbe fatto Puccini, se fosse vissuto, di quello che era già pronto? ci avrebbe “rimesso le mani”?
Mah… l’orchestrazione e lo stile in generale di Turandot funzionano perfettamente nella loro levigata complessità, mentre nelle prime opere, e ancora nella Butterfly, c’erano grossi problemi teatrali e ci rimise le mani più volte … Però ci sta che dopo la prima esecuzione e in riprese successive, come aveva fatto in molte sue opere, qualche taglio o cambio lo avrebbe magari fatto … Ad esempio nel primo atto, che, come mi diceva Berio, è sicuramente il più interessante per la scrittura musicale, la parte che va dall’entrata delle maschere sino al concertato finale, passando per le ancelle e per gli spiriti che cantano in interno, è un po’ a sezioni nette, episodiche; magari, chissà, l’avrebbe ritoccata.
Chissà se avrebbe dilatato l’apparizione di Turandot nel primo atto, come avviene nella fiaba di Gozzi? Forse quella brevissima comparsa pollice verso poteva diventare qualcosa di più per giustificare lo “sgelamento” finale … o forse Calàf avrebbe avuto altra sorte che non quel lieto fine …
…secondo me a lui sfuggì di mano qualcosa: voleva fare una cosa nuova, una fiaba, e anche il lieto fine sicuramente voleva affrontarlo. Il problema, e questo è un giudizio assai diffuso, lo ha creato lui stesso con la morte di Liù. Il problema nasce da lì, dal lieto fine dopo una morte ingiusta e tragica… ma non sarebbe stato abbastanza Puccini se non ci fosse stata Liù… Pensate anche alle tre maschere, che sono tre marionette: quella è una idea “alla Stravinskij”, molto stilizzata … e subito dopo hai “Signore ascolta” … sono due mondi opposti! Finché i contrasti, così ben trattati, li metti vicini, tutto funziona a meraviglia, ma a livello della struttura logica e “morale” della fiaba, i contrasti diventano alla lunga contraddizioni insanabili. Come giustifichi la morte di Liù seguita dall’improvviso e passionale scioglimento di Turandot, mentre Calàf dimentica in un attimo, e definitivamente, sia il sacrificio della schiava, sia la colpa di Turandot?!
Questa cesura si evidenzia nella versione di Alfano a causa dalla completa mancanza di qualcosa che introduca il duetto, diversamente da quel che farà poi Berio.
Maehder dice che fu corretto Alfano a non aggiungere nulla, mentre Berio “si è potuto permettere” di collegare il funerale di Liù a “Principessa di morte!” con una citazione che la ricorda, e di far maturare lo “sgelamento” di Turandot per mezzo della parte sinfonica, cosa che ritengo molto azzeccata. E lo fa quasi senza didascalie, mentre in Alfano c’è una lunga didascalia prevista dal libretto: “Il principe, forte del suo diritto… la rovescia nelle sue braccia…, la bacia …, lei non ha più forza…, è trasfigurata...”. Sarebbe una lunga azione ma poi, così come l’ha fatta tagliare Toscanini, avviene musicalmente in un attimo; mentre Berio ha potuto giocare nel dire con le note quello che mancava nel testo, ad Alfano fu vietato tassativamente da Toscanini nel finale definitivo.
Forse quest’opera, al di là dell’inequivocabile bellezza, attrae tantissimo proprio perché incompiuta, e ciascuno di noi è portato a fantasticare sul come potrebbe, sarebbe, se … Nel Forum di Operaclick, ogni volta che se ne parla c’è sempre un grande riscontro. A maggior ragione pesa ancora di più, per noi appassionati, la scelta del Festival Pucciniano di non far eseguire i “quattro finali” e di annullare del convegno … Ma secondo te perché è stata presa questa decisione?
Io … non lo so… Se il motivo è realmente quello economico, così come è stato comunicato in una e-mail che mi è arrivata all’ultim’ora, con il finale di Berio già preparato scenicamente e il lavoro pregresso di mesi, non si capiscono le spese immediatamente successive per i due megaschermi ai lati del palco, ben più costosi di una prova d’orchestra… e ben meno utili a mio parere... Questo per me non è affatto chiaro: se un lavoro concordato e già parecchio avanzato nella preparazione si annulla per ragioni di risparmio, e poi il giorno dopo si fa una spesa maggiore non prevista … ciò non lo ritengo né logico né rispettoso delle regole di correttezza verso chi ci ha lavorato. Paradossalmente potrei quasi più accettare una scelta ideologica, cioè: sono cose che non interessano al grande pubblico, non farebbero audience, e quindi si tagliano. Però anche questo bisognava avere la correttezza di farlo in una nuova gestione e non durante una stagione programmata. Quindi, che fosse il risparmio o che fosse una ragione ideologica, è stata, per me, una scelta completamente sbagliata e nei modi per nulla rispettosa degli artisti e dei musicologi invitati al convegno da tutto il mondo.
Su ipotetiche ragioni ideologiche di popolarità, poi, teniamo presente che il Festival Puccini già per necessità deve in genere allestire grandi titoli, e questo è comprensibile ed è legittimo, ma sarebbe auspicabile in contemporanea dedicare uno sforzo in qualche modo alla produzione “minore”, magari in altre sedi. Oppure fare proprio cose come questa dei quattro finali: creare un evento che ha il medesimo pubblico della Turandot tradizionale, ma al suo interno propone un finale non tradizionale, che fa pensare e pure dibattere. L’operazione voluta dal direttore artistico Daniele De Plano era vincente, per chi avesse voluto o saputo coglierne il valore culturale e anche d’immagine. Il finale di Berio sicuramente sarebbe piaciuto solo in parte, a qualcuno sì e ad altri no: a me personalmente all’inizio non piacque, al primo ascolto rimasi deluso; poi l’ho capito ed amato. È comunque una scintilla, un modo diverso di ascoltare che si propone e questo è importante, perché veramente la lirica, fatta seriamente, non ha altri sbocchi oggi. Quindi ci deve essere una via in cui l’aspetto popolare e di immagine vadano in armonia con l’aspetto culturale; ripeto, è a casa di Puccini che diciamo questo! Sarebbe legittimo forse in altri teatri, ma è grave perdere un’occasione così a Torre del Lago. Prima di venire al Festival ho parlato con vari appassionati, con alcuni loggionisti della Scala, e ho notato un grande interesse per il primo finale di Alfano ancora più che per Berio … mi hanno detto: “Ah, quello dove c’è l’aria con l’acuto al Do!”, quindi queste cose interessano e molto: non solo i musicologi e gli intellettuali, ma anche gli appassionati “popolari” sono ben attratti da operazioni come questa. È rarissimo vedere l’Alfano originale e chi lo conosce ne parla come una cosa grandiosa, almeno nelle intenzioni dell’autore; da un punto di vista vocale è molto pesante, tenore e soprano alla fine sono stremati … l’aria del soprano è impegnativa, molto bella, lunga, con questo Do acuto scritto in maniera non banale, di difficile esecuzione. Nel finale tradizionale invece è monca: Il problema era che Toscanini non era un compositore e fece tagliare in maniera drastica: da qui a qui non si suona! E si capisce dalle dichiarazioni successive che Alfano lo “appiccicò” quasi a spregio, senza rivederlo … come a dire: Volete solo le parti pucciniane? E io ve le faccio.
Ma quale sarebbe stato il maggior costo della messa in scena di tutti i finali?
Avevo a disposizione due letture per l’orchestra, quindi il minimo sindacale. Per fortuna l’orchestra del Festival conosce molto bene la Turandot, perciò sarebbe stato possibile curare qualche dettaglio in una delle letture e dedicare completamente l’altra ai due finali Berio e Alfano. La probabile motivazione era di risparmiare una lettura d’orchestra e farne, quindi, solo una … e infatti la Turandot è andata in scena dopo una sola lettura, tra l’altro con risultati più che buoni … Però sarebbe stato normale, oltre che civile, parlare con il direttore d’orchestra, sapere cosa ne pensava di questo taglio e non prendere una decisione irrevocabile dall’alto, senza nessun tipo di contatto con chi stava lavorando da mesi per loro. Non parlo solo di me, parlo ad esempio del regista Bertini, parlo soprattutto della signora Casolla: Berio e Alfano originale non si studiano in una settimana, (per chi li conosce seriamente…).
E perché l’annullamento del convegno?
Credo che il Centro Studi Puccini si sia ritrovato in una situazione di grande imbarazzo: mancando l’esecuzione dei “quattro finali”, che era lo scopo per cui sarebbero venuti gli studiosi, si è visto costretto ad annullare il convegno. E su questo è stata fatta una vera figuraccia internazionale, posso dirlo senza tema di smentita. Gli studiosi avevano già preparato le conferenze, prenotato i biglietti … sarebbero arrivati personaggi che non è facile riuscire a mettere assieme: Pierluigi Ledda, Kii-Ming Lo, Jürgen Maehder, Gabriella Olivero, Riccardo Pecci, Dieter Schickling, Marco Uvietta; Virgilio Bernardoni e la professoressa Biagi Ravenni avrebbero coordinato … Insomma sarebbe venuta fuori una cosa di grande importanza; sarebbe stata la prima vera occasione, per il Festival Pucciniano, di visibilità culturale europea. Lo sottolineo. La professoressa Biagi Ravenni era sbalordita quanto me. E sottolineo che in un teatro serio, qualsiasi mutamento del programma artistico viene preso almeno dopo aver sentito o coinvolto anche la direzione artistica. So che in questo il direttore artistico Daniele De Plano, persona che gode della mia più profonda stima, è stato semplicemente messo di fronte al fatto compiuto, come noi artisti, e non ha la minima responsabilità.
Quando abbiamo fatto la lettera al Ministero, alla Regione e al Sindaco di Viareggio per denunciare quello che stava accadendo al Festival, (i finali annullati sono solo una parte, c’erano richieste di riduzione economica, annullamento del Trittico in forma scenica, “proteste”, cioè licenziamenti di artisti, che poi hanno avuto ed hanno tuttora strascichi legali), fortunatamente è stato un momento di grande unione tra molti cantanti, direttori e registi dei vari cast, cosa insolita e bella.
Grazie a questa voglia e motivazione interiore comune, Turandot con il finale tradizionale ha avuto comunque un bel successo: ci siamo sentiti umanamente vicini e orgogliosi del nostro lavoro. A mio parere, dalla situazione in cui eravamo partiti, è stato quasi un miracolo.
A Torre del Lago sono sempre stato chiamato per quelle che, a torto o a ragione, sono ritenute qualità, competenze, forse per il mio entusiasmo … ma sono semplicemente un musicista e non ho tessere, non faccio campagne elettorali.
Quello che mi ha fatto male è stato il vedere, dopo lo scorso anno in cui abbiamo lavorato benissimo, delle scelte diciamo, gestionali, successive a un cambio politico, messe davanti alla musica. A me non interessa il colore politico, vorrei fare serenamente il mio mestiere. Ma purtroppo in Italia oggi succede anche questo.
Del fantomatico “finale Rigacci” sai qualcosa?
Alla Scala, dove lavoro da anni, ho imparato molto vedendo gli altri direttori lavorare, insomma, ci passano i migliori; ma ho avuto un vero “maestro di opera” che è Bruno Rigacci, uno dei miei insegnanti di direzione. Lui effettivamente sull’aspetto teatrale dell’opera, su quello che funziona sul palcoscenico, è un grandissimo maestro… un uomo che ancor oggi, a 94 anni, vive per la musica e compone! E insieme, da anni, parliamo del finale diTurandot. Lui si è arrovellato e si è convinto che il finale del libretto non aveva senso e non era conciliabile né con lo stile di Puccini, né con la morte di Liù: teatralmente non poteva funzionare. Ha quindi elaborato una diversa conclusione, che non pretende di essere il finale, ma solo una elaborazione personale che ha scritto in omaggio a Puccini. Prima ha formulato una serie infinita di ipotesi musicali immaginando le soluzioni più disparate, tipo Turandot che muore, oppure Calàf che la possiede e poi la rifiuta. Nell’ultima sua versione, che reputa la più convincente, ha usato pochissimo degli schizzi di Puccini, ma ha utilizzato molto i temi degli atti precedenti. La sua conclusione è che, come in una fiaba tragica, nel momento in cui Calàf in maniera così “priapica” si impossessa del corpo di Turandot, quasi con violenza, e lei cede più per una passione animale che non per un amore puro, in quello stesso momento, disperata e sconfitta, lei lo trascina con sé in un baratro … come se svanissero in uno spazio vuoto, privo di sentimento … allora viene fuori il coro di voci bianche che canta in crescendo una melodia dal sapore orientale dove si inneggia all’amore che può rinascere dopo la tragedia. Non c’è la trasformazione di Turandot in qualcosa d’altro, c’è lo sparire di Turandot e il rinascere della speranza … tutto questo è molto affascinante: pensavamo di farlo eseguire come dai ragazzi dell’Accademia, nel corso del Festival di quest’anno. L’idea era maturata assieme a Daniele De Plano e sarebbe stato interessante per i giovani, stimolante per tutti. Personalmente sarebbe stato anche un mio grande segno di gratitudine verso il mio maestro … e poi lui appartiene a quella stirpe di maestri che hanno conosciuto i diretti collaboratori di Puccini, quelli che avevano lavorato con lui … che conoscevano Ricci!
Per te è attendibile il volume di Ricci, Puccini interprete di se stesso (esclusa ovviamente Turandot…), così pieno di annotazioni, osservazioni, anche reprimende … tanto che pare quasi più Ricci che Puccini?
Il maestro Bartoletti lo considerava un’opera molto importante, lo portava con sé e ne fece omaggio a noi maestri collaboratori della Scala. È pieno di indicazioni di buon senso, tipo: la durata delle corone, mai eccessive, circa il doppio del valore, l’uso dei portamenti, le scelte dei tempi … Però ho l’impressione, da come Puccini ha poi ritoccato la sua stessa musica, l’ha variata, che egli avesse una certa liberalità nel lasciare l’iniziativa all’interprete…
Questo è un po’ un carattere generale delle grandi opere in tutti i campi della musica, che sono ambigue … una grande opera può vivere in tanti modi diversi, ammette le direzioni più disparate.
Sì, e diciamo che per me la cosa fondamentale di Puccini, e per questo difficilmente replicabile da direttori che vengono da formazioni lontane da quella italiana, è l’elasticità ritmica … In effetti il fraseggio di Puccini non sarà mai metronomico, non sarà mai com’è scritto … si ha la sensazione che il canto sia veramente molto vicino ai ritmi instabili del parlato: non è quadrato! Queste sono piccole cose che i direttori italiani, come appunto Bartoletti, che vengono dalla formazione in teatro d’opera, hanno maturate dentro, da giovani … è come quando noi facciamo Wagner o gli autori russi: è difficile, perché tante cose non si possono scrivere … A proposito di metronomi variabili, pensate a Berio: lui ha preso le citazioni dagli altri atti aumentandone la velocità metronomica, l’ha proprio indicata; evidentemente aveva l’idea di far sentire un senso di déjà-vu, per esempio il tema del coro nel secondo atto che è grandioso, quasi da grandopéra, lui lo ha citato riassuntivamente, fatto come una reminiscenza, e quindi tutto è più veloce. Poi è inevitabile che nel momento della rappresentazione ci siano sempre degli aggiustamenti che si trovano solo suonando. Succede persino a un direttore: l’altro giorno ho riascoltato la seconda recita del Tabarro dello scorso anno, e ho pensato … ma sono io??? Perché l’attacco era troppo veloce. Poi ho risentito le altre recite ed era “giusto”, ma evidentemente quella sera lo sentivo così; in più cambiano gli interpreti, la vocalità dei cantanti, le sensibilità, quindi è tutto parzialmente aleatorio nelle scelte. Anche nel passaggio tra la composizione e l’esecuzione persino il più grande autore non ha un’idea perfetta di quello che verrà fuori, è per questo che va alle prove, che segue, che cambia … l’opera d’arte musicale nasce e muore ogni volta, sta a noi farla vivere nel modo più convincente volta per volta.
Questo ci ricorda una cosa che hai scritto nella conferenza a proposito delle partiture di Turandot: “ho un problema pratico, devo eseguirle, credere in ognuna e viverla, al momento dell’esecuzione, come se fosse il massimo della perfezione possibile”, pensiamo all’onestà culturale che un direttore deve avere … se dirigi qualcosa in cui non credi molto devi però impegnarti a trasmettere qualcosa all’ascoltatore.
Qualche volta, se possibile, si evita di dirigere quello che non sentiamo, però un direttore in carriera affronta tantissimi autori, più o meno piacevoli. Come musicista deve rendere il più possibile interessante, piacevole e funzionante qualsiasi musica, deve arrivare al punto di innamorarsene … In un saggio, mi pare sui pittori medievali, Roberto Longhi osservava che i giudizi di valore di molti studiosi sulle opere sono falsati e mancano di obiettività, perché quando lavori a lungo su un autore, anche minore, tendi a metterlo un po’ su un piedistallo … Secondo me il direttore deve comunque farlo questo tipo di lavoro: non è un critico, è quello che fa vivere l’opera d’arte e quindi, tornando ad Alfano, nella fase di esecuzione darei sicuramente il massimo di amore per questa musica. Nella prima versione del finale c’è da sottolineare il suo “essere Alfano”; anche le cose particolari della sua scrittura, ad esempio gli accordi dissonanti che portano al bacio, che sono violenti e urtano, non possono essere tirati via o tagliati come invece fece Toscanini che disse: no, questa non è roba di Puccini, la tagliamo e basta! No … noi eseguendola dobbiamo renderla credibile perché Alfano era, secondo me, un ottimo compositore, quindi dobbiamo far funzionare questa musica nella sua poetica, nella sua logica. In Berio … sinceramente all’inizio sono stato molto tentato di ammorbidirlo. I suoi cambi di tempo, queste fratture nette, questo mettere insieme tutti i pezzi di schizzi, avrei voluto un pochino dilatarli, far capire, fra un passaggio e l’altro di atmosfera, dove iniziava la citazione, renderlo un pochino più pucciniano. Questa era la prima idea. Ho impiegato molto a capire questo finale e credo che il primo impatto per il pubblico sia certamente difficile; ma poi, a forza di sentirlo così tante volte alla Scala, lavorandoci quando l’abbiamo fatto in maggio diretto dal maestro Chailly, mi sono accorto che è stato scritto con molta gioia … e Berio era così! Lui giocava con la musica e queste citazioni che vanno una sopra l’altra, si confondono e escono fuori, sono strumentate con molta fantasia. Questo è un punto abbastanza in comune con Puccini, per cui ognuno di questi passi deve essere suonato con calore, con passione e non in maniera distaccata … se uno pensa alla musica contemporanea spesso immagina qualcosa di freddo, talvolta urtante, ma non è certo il caso di questo finale! Non credevo di trovarmi a “teorizzarlo”, avrei preferito suonarlo, perché qui il direttore può fare veramente la differenza tirando fuori lo spirito pucciniano, rendendo molto carnosa questa musica che non è evanescente, non è esercizio intellettuale … Stavamo facendo un lavoro coscienzioso per il finale Berio a Torre: per esempio De Plano e il regista Angelo Bertini erano venuti alla Scala in aprile quando preparavamo la Turandot, a vedere, studiare … potete veramente capire la mia delusione: mesi di lavoro e poi arrivi a pochi giorni dalla “prima” e salta tutto!
Vedi una possibilità che il progetto possa essere ripreso?
Lo auspico, e auspicherei che fosse il Pucciniano a farlo, ma in queste condizioni mi sembra abbastanza improponibile … Purtroppo temo che qualcuno rubi l’idea perché comunque si era diffusa … Per finire, mi riallaccio a quando mi hai chiesto quale fosse la vera ragione sull’annullamento dei finali: non escludo, mi pareva percepirlo dall’atteggiamento che ho visto, che ci fosse un cupio dissolvi, magari per dissapori con la gestione precedente… ma noi artisti non c’entravamo nulla e non meritavamo questo … Comunque, evidentemente, il progetto dava fastidio.
intervista effettuata da Marilisa Lazzari e Vittorio Mascherpa
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Il maestro Bruno Nicoli ci concede di pubblicare il testo del suo intervento al Convegno (disdetto) sui “quattro finali”, lasciato simbolicamente incompleto, privo di note e di esempi musicali che avrebbe eseguito al pianoforte. Approfitta per ringraziare la professoressa Gabriella Biagi Ravenni ed il direttore artistico Daniele De Plano per l’impegno profuso nel progetto.
I finali di Alfano e Berio: spunti analitici per l'esecuzione musicale
di Bruno Nicoli
La mia vita di musicista e quella di studente universitario si sono intersecate in maniera importante nel 2002, quando mi trovai a dirigere per la prima volta Turandot e contemporaneamente a preparare una tesi di laurea sul suo finale, che poi titolai Turandot ed il finale di Alfano. Storia ed analisi di un conflitto stilistico irrisolto.
Fino all’anno precedente quasi nulla sapevo della genesi del finale di Franco Alfano.
Conoscevo solamente il finale tradizionale dell’opera, lavoro che mi pareva stranamente disomogeneo, incoerente per stile e poco fluido per struttura, soprattutto comparandolo con quel gioiello che è la partitura pucciniana di Turandot.
Gli studi universitari, in primo luogo le ricostruzioni storiche e musicologiche di Jürgen Maehder, mi diedero così, a posteriori, una serie di risposte esaustive sulle cause di quelle incongruenze, riconducibili in gran parte ai tagli imposti da Toscanini ad Alfano, e mi fecero scoprire il suo finale cosiddetto “originale”.
Questo finale, che in effetti già era frutto di tagli e compromessi con Casa Ricordi e Toscanini, rivelava assai meglio del definitivo le doti compositive e creative di Alfano. Vi ritrovavo, almeno in parte, le caratteristiche di un autore che intanto andavo scoprendo con meraviglia in altri suoi lavori, penso ad esempio alla complessa e raffinata strumentazione de La leggenda di Sakùntala, o alle malinconiche mezze tinte dell’ultimo atto del Cyrano di Bergerac.
Certo nel finale originale manca parecchio dello stile di Puccini, vi è un impiego limitato dei suoi schizzi, ma c’è comunque una logica strutturale e drammatica, e anche qualche pagina notevole, come l’aria “Del primo pianto”.
Per completare la mia tesi, su suggerimento della mia relatrice, Gabriella Biagi Ravenni, andai anche ad intervistare Luciano Berio, da poco autore di un nuovo finale di Turandot: il colloquio che avemmo fu per me illuminante più di ogni analisi e ascolto del suo lavoro.
In effetti Berio, del quale avevo già “praticato” la musica nella preparazione della sua opera Outis al teatro alla Scala, dimostrò una simpatica quanto schietta lontananza ideologica dal finale tradizionale di Alfano, ritenuto esplicitamente da lui “senza grandi pretese” e “volgarotto”. Tra l’altro mi disse che non conosceva affatto quello originale.
Da quel colloquio ebbi la certezza che l’attitudine compositiva e direi caratteriale di Berio, oltre alle condizioni culturali, storiche e editoriali in cui si trovava, erano così abissalmente lontane dal mondo e dalle sfortunate circostanze in cui Alfano operò, da rendere impossibile un serio paragone di merito tra i due finali.
Il mio intervento di oggi cerca quindi di spiegare quello che mi sembra essere il valore e il senso musicale delle due partiture del finale prese singolarmente, (lasciando un poco in disparte quella mutilata del finale tradizionale), piuttosto che stabilire criteri comparativi tra le due.
Ho anche un problema pratico: devo eseguirle e quindi “credere” in ognuna e viverla, al momento dell’esecuzione, come se fosse il massimo della perfezione possibile.
Partirei dunque da Alfano, esponendo subito la convinzione che ho ricavato dallo studio della partitura in relazione agli schizzi di Puccini: egli era un compositore e come tale agì, poco si comportò da compilatore, come utopisticamente avrebbero sperato Toscanini e la Ricordi, quasi per nulla da filologo.
Certo, una cosa è cercare di ricostruire con criteri filologici qualcosa che ad esempio è andato in parte perduto, altra cosa è voler ricostruire filologicamente qualcosa che non è mai esistito. E il finale di Puccini, di fatto, non è mai esistito. Tranne probabilmente due schizzi continuativi piuttosto esaurienti, (da “Principessa di morte!” a “Il bacio tuo mi dà l’eternità!” e da “Oh! Mio fiore mattutino!” sino a “La mia gloria è finita!”), non abbiamo alcuna certezza, né la aveva Alfano, che gli abbozzi di Puccini sarebbero stati veramente da lui utilizzati nell’ipotetico finale. Personalmente di alcuni schizzi dubito parecchio, d’altronde io ancora immagino Puccini preso a rivoluzionare il libretto, ancora sospetto che non fosse veramente sicuro di finire l’opera con il trionfo dell’amore dopo la morte di Liù.
Qualsiasi compositore al lavoro, dopo una lunga gestazione creativa fatta di ipotesi, rimuginii, spunti passeggeri e varianti, (escludiamo la scrittura di getto di Mozart e Rossini, ma questa è altra storia…), modella e sviluppa solo alcune idee cardine che vengono poi a strutturarsi ed unirsi assieme fino a costituire la partitura definitiva. Spesso persino durante la fase di preparazione dell’esecuzione l’autore ritorna a modificare la strumentazione o ad eliminare ciò che in concreto non funziona.
Questo fu l’approccio pratico di Franco Alfano agli schizzi lasciati da Puccini, trattandoli come fossero i suoi personali, quindi passibili di modifiche, tagli, sviluppi.
Da una lettera del 6 Agosto 1925 ad un amico: “Eccomi al lavoro – pesante lavoro di scelta e di creazione, di rattoppo, di cesello… - Scegliere nel materiale manoscritto abbozzato “quello…che Lui forse avrebbe lasciato – e tornirlo e presentarlo…presentabile – scartare “quello che Lui avrebbe certamente ripudiato – Qui togliere, là sviluppare…e poi…creare ex-novo quello che non c’è – E non esser troppo Alfano!... Fatica immane – Responsabilità enorme”.
In una conferenza stampa di un mese successiva, nel pieno del lavoro: “… di tali appunti informi e dai quali era quasi impossibile desumere, intuire l’intenzione del compositore, mi son potuto assai scarsamente giovare…”. Come prevedibile, questa conferenza stampa suscitò una pesante reazione di casa Ricordi, che invitò Alfano al silenzio.
Se passiamo ai dettagli della partitura, un esempio pratico di questa attitudine a relativizzare l’importanza di alcuni schizzi di Puccini è rivelato nella esclusione dal finale originale dell’abbozzo pucciniano sul testo “Il mio mistero? Non ne ho più”, una schematica progressione armonica, cui Alfano preferì una sua libera e personale rielaborazione del tema dell’imperatore del secondo atto. Lo schizzo fu poi reintegrato nella seconda versione, che tutti oggi conoscono, su richiesta di Toscanini per mantenere maggior fedeltà a Puccini: ebbene, negli anni cinquanta vi fu un noto critico britannico che, attribuendolo erroneamente all’invenzione
di Alfano, lo giudicò “mostruosamente banale e amatoriale”. Evidentemente Alfano, da compositore, aveva pensato in cuor suo la stessa cosa.
Un altro esempio del “libero compositore” Alfano è l’aria “ Del primo pianto”, che si trovò a sviluppare partendo da un tema pucciniano di sole 5 battute. Il procedimento di Alfano è un bellissimo esempio di ampia struttura fraseologica costruita su “tema dato”, per usare un termine caro agli studenti di composizione. Quest’aria è lunga 101 battute, tagliata poi di ben 40 nella seconda versione voluta da Toscanini, col risultato di diventare un arioso abbastanza passeggero e scarsamente interessante. L’aria originale è invece dotata di ampio respiro e pathos, non scade mai in clichées o banalità scolastiche, e può essere paragonata, a mio modo di vedere, alle migliori prove degli operisti italiani coevi.
Vorrei elencare molti altri esempi del “libero compositore Alfano”, come le tormentatissime tredici battute che portano al fatidico bacio dei protagonisti: un esempio di intrico armonico e politonale scarsamente pucciniano, ma violentemente teatrale, con tanto di citazione del tema di Turandot “No! Mai nessun m’avrà!” trasfigurato in modo minore in funzione drammatica. Similmente Alfano opera nella sezione “Arbitra son del tuo destino…”, estremamente aspra, potremmo dire straussiana, oppure ricorre alla trasformazione delicata ed esotica dello schizzo pucciniano per gli squilli di tromba, affidandola inaspettatamente al coro interno che fa da raccordo per il lieto finale (“Nella luce mattutina”, evocazione tra l’altro richiesta per il libretto dallo stesso Puccini in una lettera ad Adami).
Ricordiamo infine il coro finale, una libera e fragorosissima, direi “nazionalpopolare” rielaborazione dell’aria di Calaf del terz’atto, che però non ha la banalità ripetitiva della scolastica trascrizione dell’ultima versione.
Se analizziamo poi alcuni spunti di strumentazione, ci accorgiamo che la distanza stilistica da Puccini è ancora più evidente.
Prendiamo ad esempio quella di “La tua anima è in alto”: nel finale originale la traduzione dello schizzo pucciniano è fatta con una raffinata somma di piccole timbrature, (4°corno, un’arpa, trillo dei celli), su una rarefatta enunciazione del tema portante affidato solo a flauti e viole con sordina. Guardando lo schizzo cui si ispira notiamo essere eliminata la scala cromatica dei violoncelli ed evitata l’armonizzazione completa delle parti scritte da Puccini. Questa scrittura rivela quindi una certa intraprendenza di Alfano, un taglio direi di gusto timbrico francese, molto personale. La stessa pagina ristrumentata nel finale definitivo, recupera la scala cromatica pucciniana prima negletta e realizza le armonie con una scrittura compatta di accordi affidati a tutti gli archi acuti e legni in raddoppio, insomma cerca di “tornare” ad una scrittura più rispettosa degli appunti di Puccini, e anche del suo stile di strumentazione (basta osservare la partitura di Turandot per accorgersi che, pur nelle originali soluzioni timbriche di Puccini, l’impianto di raddoppi di strumenti a “famiglie” domina ancora, e la rarefazione sonora è sempre nitida, non esasperata in dettagli minimi fatti di timbri sovrapposti).
Aggiungo sommariamente che alcuni aspetti della partitura rivelano anche “ad occhio nudo” uno stile tutto alfaniano, come ad esempio il continuo uso di dinamiche differenziate sulle diverse sezioni dell’orchestra, soprattutto crescendi e diminuendi sovrapposti, l’uso esasperato di sforzati con effetto di piano improvviso e crescendo successivo, oppure la scelta di indicazioni di tempo estremamente dilatate, quasi agli estremi dell’eseguibilità vocale, come nella sezione “Il mio mister? Non ne ho più!”.
Come verificai ai tempi della mia tesi di laurea, queste caratteristiche sono presenti ugualmente ne La leggenda di Sakùntala, comprese molte armonie e persino cellule tematiche identiche.
Sappiamo, cosa incredibile, che Alfano ebbe in visione la partitura di Turandot solo dopo la stesura del suo finale originale, il che la dice lunga su quanto poco attento fosse stato su questo punto, e secondo quanto sostiene Jürgen Maheder, quanto ancora i compositori dell’epoca considerassero l’orchestrazione “un ingrediente strutturalmente inferiore e cronologicamente posteriore alla genesi di un’opera”.
Tirando le somme sul finale originale di Alfano, ritengo che il suo sforzo creativo, in termini di eliminazione di schizzi ritenuti poco importanti e di inserimento di lunghe sezioni di musica propria, fosse piuttosto legittimo e talvolta necessario per cercare di rendere interessante e teatralmente plausibile l’epilogo della vicenda, la cui natura era già problematica e inevitabilmente contraddittoria per lo stesso Puccini. Non sono quindi dell’idea, molto diffusa, che dovesse trattare gli schizzi di Puccini come un oggetto di culto inviolabile, perché sono certo che Puccini per primo non l’avrebbe fatto.
Ritengo invece più discutibile, in quanto causa di evidente incoerenza con il resto dell’opera, l’assenza di un tentativo di imitazione stilistica di Puccini. Non parlo ovviamente del tentativo di riprodurre l’inimitabile fraseggio e la creatività melodica di Puccini.
Penso piuttosto alla strumentazione, che andava studiata nella partitura pucciniana prima di passare alla composizione del finale, tenendo così un atteggiamento più filologico. Anche l’uso di certe concatenazioni armoniche contorte e ridondanti poteva essere per lo meno ridotto, in omaggio all’armonizzazione sempre nitida e consequenziale di Puccini. Alfano non poteva certo diventare Puccini, ma poteva smussare un poco le differenze compositive, di cui era certamente cosciente, con un maggior lavoro di artigianato che sarebbe stato più che giustificato dal tipo di incarico che aveva ricevuto.
Certo dobbiamo ricordare a sua difesa che i due mesi inizialmente previsti per compiere il lavoro, (diventarono poi sei sia per una malattia che lo colpì agli occhi, sia per le modifiche richieste da editore e Toscanini), non lo incoraggiarono in tal senso.
Ovviamente questa diversa matrice stilistica del primo finale non potrà essere certo nascosta o mascherata nella concertazione, credo anzi sia mio preciso compito sottolineare e far emergere nella loro espressività teatrale e musicale proprio le particolarità riconducibili ad Alfano.
È un finale “importante”, pieno di colori e tensioni drammatiche tanto più complesse e parossistiche, quanto più proporzionalmente compensate dal glorioso, granitico e luminoso happy ending. Plasticamente questi due aspetti raffigurano anche le contraddizioni del teatro d’opera di quegli anni, a cavallo tra i tormenti intellettuali che stavano già portando alla dissoluzione del linguaggio tradizionale ottocentesco, e la ricerca ancora rassicurante dei clichées del popolare grand-opéra. Turandot di Puccini già partiva da questi presupposti, Alfano istintivamente li esasperò.
Concludendo, penso che il finale originale dovrà essere eseguito come un omaggio ad Alfano stesso, alla sua difficile e controversa impresa, alle sue intriganti peculiarità di musicista nell’ambito del primo novecento italiano.
Passando al finale di Berio, aprirei un po’ bruscamente col dire che vedo il suo lavoro non come un verosimile completamento della Turandot di Puccini, piuttosto come un caloroso saluto, con dedica autografa, che dagli anni duemila viaggia a ritroso per riverire con sincerità il mondo di Puccini e di Turandot.
L’utilizzo di moltissimi frammenti e schizzi di Puccini è sicuramente l’aspetto di maggior rispetto di Berio per l’autore, così come la strumentazione sfavillante, ricca, magica, è un richiamo ideale alle intenzioni nuove del Puccini di Turandot.
Ma è evidente che nella partitura di Berio la frattura stilistica con Puccini è conclamata e sottolineata.
Nell’incontro che ebbi con lui nel 2002, alla mia precisa domanda sul valore del suo finale in rapporto a Puccini, disse con schiettezza di sentirlo il più vicino possibile “intellettualmente” a Puccini, non certo stilisticamente, e di aver composto animato “dalla volontà di far emergere e rendere esplicita la modernità insita negli elementi più arditi del primo atto di Turandot”.
Secondo lui Puccini aveva abbandonato la scrittura del finale non per la malattia incipiente, ma perché il libretto era, cito testualmente, “osceno e scandaloso”.
In effetti Berio ha voluto e potuto ricreare, “dire” con le note, ciò che nel libretto non c’è e che è mancato a Puccini; in più ha eliminato tutte le parti del libretto che gli parevano retoriche o ridondanti.
Così ha potuto creare un lungo interludio per il bacio dei protagonisti, che evocasse ciò che le parole del testo non potevano suggerire, ed ha tagliato la parte finale del libretto, quella più celebrativa, per realizzare una chiusura amara e sospesa.
Inoltre ha inserito nell’ incipit e nelle ultime battute del suo finale la citazione dei temi di Liù, poiché la contraddizione tra la morte di Liù ed il successivo lieto fine previsto dal libretto “violava le leggi ferree della fiaba”.
Così mi confidava: “Mi sono detto: poveretta, è morta, pensiamoci un momento…”.
Apro e velocemente chiudo un occasionale paragone con l’operato di Alfano, solo per dire che a lui nulla di tutta questa libertà d’azione sarebbe stato concesso da Toscanini e Ricordi, e che i commenti di molta critica giornalistica che all’alba degli anni duemila ha salutato il finale di Berio come più “rispettoso” di Puccini in termini di attitudine compositiva, di uso del suo materiale musicale e delle presunte intenzioni di Puccini, mi paiono profondamente ingenerosi nei confronti di Alfano, e intellettualmente mistificatori anche nei confronti di Berio.
Passando all’ analisi di alcuni punti salienti del suo lavoro, notiamo anzitutto la libertà armonica, coloristica e contrappuntistica con cui rivisita il primo lungo frammento lasciato da Puccini, da “Principessa di morte!” a “Il bacio tuo mi dà l’eternità!”: l’accordo pucciniano di La minore dell’incipit viene arricchito dal Fa diesis (sesta aggiunta), è introdotta ex novo una seconda voce che per grado congiunto percorre la stessa scala di La minore alterata, e più oltre il gioco contrappuntistico dei legni sui violini e viole a “Con le mani brucianti” crea occasionali e insistite dissonanze. Insomma la linea stilistica viene subito tracciata con un effetto di “straniamento”, un gioco libero di colori e armonie che mascherano elegantemente la matrice pucciniana.
Come detto, il vero snodo fondamentale del finale di Berio è l’interludio per il bacio dei protagonisti: per lo “sgelamento” della principessa sul “Poi Tristano” degli appunti di Puccini, intendimento tanto eloquente quanto enigmatico, Berio inserisce una impressionante quantità di rimandi tematici e intellettuali che si intersecano e si sovrappongono.
I cromatismi e l’accordo cardine dell’opera wagneriana, (non a caso la vicenda di un amore irrealizzabile), assieme ad alcuni temi del primo atto di Turandot, che Berio nota essere simili a elementi armonici della settima di Mahler e dei Gurrelieder di Schönberg, si uniscono a diversi elementi delle bozze pucciniane mai utilizzati da Alfano. Diversamente dalle ricche didascalie del libretto originale, la sola azione indicata da Berio è “Il principe abbraccia il corpo di Turandot”, e da quello spunto la struttura musicale porta, citando il tema del filtro d’amore del Tristano, fino ad un Si bemolle unisono sul ff, presumibilmente corrispondente al bacio dei protagonisti. Il resto è una reminiscenza, uno sciogliersi di citazioni e rimandi emotivi fuggevoli, fino al collegamento, abbastanza inaspettato, all’altro grande schizzo pucciniano di “Oh, mio fiore mattutino”.
Noto, per concludere le mie considerazioni su questa lunga pagina sinfonica, la più evidente lontananza compositiva da Puccini: lo sviluppo tematico è praticamente assente.
È questo carattere di pastiche che segna la vera distanza di Berio da Puccini: pensiamo ad esempio al finale del primo atto di Turandot, un lungo concertato che parte da una cellula di quattro note, dilata e si ripete in un teso crescendo che sfocia nei tre fatidici colpi di gong di Calaf, e confrontiamolo con questo climax del bacio di Berio: di là sviluppo e ripetizione partendo da una breve cellula, qui sovrapporsi di elementi diversi ed eterogenei in una fulminante accumulatio.
Quasi tutti i collegamenti tra le varie grandi sezioni del finale Berio avvengono ugualmente ex abrupto, e gli schizzi di Puccini vi affiorano e scompaiono senza originare ampie strutture; al massimo gli stessi vengono legati assieme da brevi dissolvenze o improvvise asprezze armoniche, in un magma vorticoso che mescola passato e presente.
Tutto ciò appare abbastanza in linea con la ben nota idea di restauro musicale già teorizzata e attuata da Berio in Rendering, quando collegò come fossero pannelli incompiuti i frammenti della mai nata decima sinfonia di Schubert; dobbiamo però notare che nel finale di Turandot la linea di confine tra l’antico e il moderno risulta ben più sfumata, vuoi per la necessità di maggior continuità teatrale e testuale dell’opera rispetto al genere sinfonico, vuoi per la maggior vicinanza di Berio al linguaggio novecentesco di Puccini rispetto a quello classico-romantico di Schubert. L’aria “Del primo pianto”, che in Alfano segue la struttura articolata ed ampia del libretto e si sviluppa secondo la logica compositiva dell’epoca di Puccini, corrisponde invece in Berio ad un passaggio piuttosto evanescente, che riveste il testo, qui fortemente ridotto, con la citazione sintetica ed accelerata dell’aria d’ingresso di Turandot del secondo atto. Ultima considerazione quella sulla chiusa dell’opera, secondo me la pagina più pregevole e commossa del lavoro di Berio. La reminiscenza del tema dell’esilio del primo atto, conduce ad una amara chiusura a mezze tinte, con il tema di Liù a ricordarci definitivamente il suo sacrificio, fino a svanire nella soffice luce dell’accordo di Mi bemolle maggiore in pianissimo.
Sul finale in pianissimo dell’opera si è detto e scritto, con una certa forzatura pubblicitaria a favore del lavoro di Berio, che fosse volontà di Puccini.
La testimonianza postuma dell’allora giovanissimo Salvatore Orlando, riferita a Berio da Leonardo Pinzauti nel 2001 e citata nel saggio analitico del finale Berio di Marco Uvietta “È l’ora della prova”, rievoca una esecuzione al pianoforte di Puccini con un pianissimo finale, ma non può essere in alcun modo indice che fosse una volontà definitiva dell’autore; per la verità neppure sappiamo se la reminiscenza dell’Orlando poco più che bambino, per quanto sincera, fosse nitida. Sappiamo invece che lo stesso Toscanini aveva ascoltato un ipotetico finale eseguito da Puccini al pianoforte, cosa che tra l’altro legittimò molto il suo potere su Alfano: possibile che il suo pressante intervento sul malcapitato compositore non andasse in direzione di un finale in pianissimo se era nelle intenzioni dichiarate di Puccini?
Le parole di Puccini sulla conclusione di Turandot, scritte in una lettera di indicazioni ad Adami, sostengono d’altronde con chiarezza che “questo amore alla fine deve invadere tutti sulla scena in una perorazione orchestrale”.
Berio stesso mi precisò che il finale in pianissimo era una sua autonoma scelta, e che la testimonianza sulle volontà ipotetiche di Puccini la considerava semplicemente una piacevole conferma a posteriori. Passando ad osservare la strumentazione di Berio, si nota in generale un uso intenso delle percussioni, lo xilofono in particolare è quasi solista in in paio di interventi, e un ricco uso dei vari timbri strumentali a sottolineare i giochi di contrappunto (pensiamo ad esempio alla strumentazione di “Oh, mio fiore mattutino”).
Gli archi, che Puccini ancora predilige per condurre la parte melodica di Turandot, vengono utilizzati da Berio in maniera più frammentata, talvolta riprendendo gli aspetti più novecenteschi del primo atto pucciniano, come emerge chiaro nell’interludio sinfonico grazie all’uso dell’archetto con il legno e ad alcune figurazioni a note ribattute.
Rimane il problema dell’esecuzione: “ammorbidire” le differenze tra Berio e Puccini, dilatando ad esempio i tempi nei momenti di stacco tra una sezione e l’altra per permettere di percepire una certa continuità narrativa e conferire così una parvenza di omogeneità con i tre atti precedenti, come immaginavo nella mia prima fase di ascolto e studio, oppure procedere al contrario, sottolineando rotture e contrasti interni alla struttura per marcare la differenza con Puccini, come Berio probabilmente avrebbe voluto?
Oggi, dopo una lunga immersione in questo mare magnum di reminiscenze pucciniane e lampi creativi autonomi di Berio, percepisco istintivamente la necessità di percorrere la seconda strada, ma con una partecipazione emotiva forte, richiamata dalla stessa natura evocativa di questo finale. Berio utilizza gioiosamente gli appunti pucciniani, come fossero tante piccole oasi di storia e di emozioni che sembrano affiorare all’improvviso da chissà dove, per risvegliare e richiamare nel presente la nostra passione di ascoltatori ed amanti di Puccini.
Sono quindi convinto che ogni singolo tema, ogni colore, ogni gioco contrappuntistico vada vissuto e suonato non in maniera troppo intellettuale, ma con lo stesso calore con cui naturalmente percepiamo e viviamo Puccini.
Anche le asprezze e le rotture fraseologiche volute da Berio, nelle mie intenzioni vanno rese con gioiosa intensità e libertà agogica.
Rimane il grosso problema della credibilità teatrale di un’opera che muta linguaggio, significato e prospettiva nel duetto finale: potrà mai avere un senso compiuto ed accettabile per il pubblico della lirica?
Penso realisticamente che il finale Berio continuerà a lungo a dividere il pubblico, e che i suoi migliori pregi possano essere scoperti solo accettando di cambiare prospettiva e attitudine di ascolto, per qualcosa che vuole essere e rimanere qualcosa di “altro” rispetto alla logica conclusione di un’opera lirica.
Riguardo all’esecuzioni dei diversi finali di Turandot, credo con una certa convinzione che la musica dirà tutto in maniera assai più eloquente delle parole.
Sicuramente si divideranno i pareri, degli ascoltatori e degli addetti ai lavori, ma per tutti sarà stimolante e vivo il confronto, cosa nuova e bella nel Festival dedicato a Puccini.
L’enigma del Finale di Turandot, proprio perché impossibile da sciogliere, avrà sempre il potere di farci discutere ed affascinarci, e anche di questo, in fondo, dobbiamo essere grati a Puccini.
di Bruno Nicoli