Nella lettera ai Pisoni, più comunemente nota con il nome di Ars poetica, il poeta latino Orazio ci racconta qualcosa su Tespi, uomo di spettacolo a metà tra la realtà storica e la leggenda cui, forse, si può ricondurre il processo fondativo del genere tragico nell'antica Grecia. Tespi, dicono alcune fonti antiche, fu il primo a staccare dal coro un solista per creare un'interazione drammatica. Orazio dice che Tespi fosse solito andare in giro con un carro per tenere i suoi spettacoli.
L'espressione “carro di Tespi”, comprensibile in precedenza solo dai classicisti, si irrobustì nell'italiano nel tardo Ottocento, quando presso i comici girovaghi insorse l'abitudine di usare strutture lignee facilmente smontabili per allestire i propri teatri. L'espressione venne ripresa e diffusa nel periodo fascista, a partire dal 1929, con l'esperienza dei Carri di Tespi (tre per la prosa e uno per la lirica) che, girando di paese in paese, contribuirono a diffondere il teatro di prosa e quello musicale anche nei centri remoti e privi di strutture idonee.
Oggi, l'espressione “Carro di Tespi 2.0” (dove il “2.0” va inteso come un riferimento generico al rinnovamento, piuttosto che al mondo dei social media) viene usata per descrivere il progetto nato in collaborazione tra il Teatro dell'Opera di Roma e il Teatro Massimo di Palermo: un progetto intelligente, coraggioso e che, finora, ha riscosso un buon successo di pubblico e raggiunto interessanti risultati artistici. La genesi del progetto? Si è cercato di avvicinare all'opera un nuovo pubblico e di restituire qualcosa ai cittadini che finanziano il teatro indirettamente, con le proprie tasse. Di qui la gratuità degli eventi e una serie di scelte dovute alla necessità di ridurre i costi: soprattutto la riduzione della durata dell'opera e l'utilizzo di cantanti, attori e orchestrali giovani, ancora nella fase degli studi.
Si è anche posto l'accento sui luoghi interessati, spiegando come tra gli intenti del progetto ci fosse quello di “portare l'opera in periferia, in luoghi disagiati”. Impossibile fare a meno di pensare che l'argomento sia, più che altro, demagogico: Piazza Sempione, nel quartiere di Montesacro, piazza Anco Marzio a Ostia, Piazza Vittorio Emanuele II a Rieti e gli altri luoghi interessati fino a questo momento, checché ne pensino i giornalisti di Repubblica o del Corriere, non sembrano proprio le favelas di Rio de Janeiro, luoghi “dove la parola cultura non esiste e non esistono teatri né cinema, e non si capisce cosa vuol dire se non ci si vive”.
La scelta del titolo è ricaduta su Il barbiere di Siviglia, soprattutto per l'immediatezza e la verve comica. Scelta azzeccata, tanto più che a dar vita al capolavoro di Rossini è intervenuto un brillante e stravagante artista come Gianluigi Toccafondo, firmando le scene, le splendide proiezioni e i costumi. Anche il regista e ideatore del progetto Fabio Cherstich ha compiuto un ottimo lavoro: le interazioni tra i personaggi sono frizzanti, ridanciane e perfettamente inserite nel particolare contesto scenico, sfruttando ogni anfratto del camion oltre allo spazio circostante.
Per far stare tutto in un'ora e mezza, l'opera è stata pesantemente tagliata in ogni sua parte: a cantare sono solo i cinque personaggi principali, anche se gli altri partecipano allo svolgimento dell'azione come mimi (e vale la pena citare la brava Valeria Almerighi nei panni di Berta); alcuni brani sono del tutto assenti e quelli presenti sono modificati da micro o macro tagli, a partire dall'ouverture. Eppure, il risultato consente di seguire quasi interamente la storia dall'inizio alla fine (con qualche piccolissimo buco logico che andrebbe riempito), ascoltando tutte le melodie più celebri. Il pubblico apprezza, ride e applaude, a tratti mantenendo un silenzio quasi incredibile, visto il contesto.
Ho assistito domenica 17 luglio alla recita di Piazzale Sempione, nel III Municipio. Tutto bello e divertente, tutti molto volenterosi: l'orchestra giovanile del Teatro dell'Opera (chiamata con anglismo Youth Orchestra), il direttore Carlo Donadio e il multietnico gruppo dei 5 interpreti principali, composto dall'israeliana Reut Ventotero nei panni di Rosina (proveniente dal progetto Fabbrica dell'opera di Roma), dall'estroverso Figaro giapponese di Takahiro Shimotsuka, dal promettente Conte di Almaviva italiano di Manuel Amati, dal Bartolo spagnolo di Abraham García González e dal Basilio georgiano di Akaki Ioseliani.
Come portare nuovo pubblico, in particolare quello giovanile, al teatro musicale? In questi anni, il tema è tra i più sentiti e discussi. Molti teatri si sono mossi, in modi assai differenti. Le proiezioni cinematografiche, cominciate dal Metropolitan di New York, poi portate a Londra e ora diffuse in altri teatri importanti, sono state uno dei primi passi. Si è intensificato il numero di nuovi allestimenti, molti dei quali con ambientazioni moderne o contemporanee, con un avvicinamento al linguaggio cinematografico, spesso scontrandosi con una larga fetta di pubblico più vicina al linguaggio tradizionale del genere. Un mezzo tentato sempre più frequentemente è lo streaming gratuito o la diffusione di brani o di intere opere su Youtube (in Italia, il teatro che più si è mosso in questo senso è stato il Carlo Felice di Genova).
Non mancano però iniziative più particolari. Negli Stati Uniti, per esempio, l'opera di Cincinnati ha lanciato l'anno scorso un progetto che per certi versi assomiglia a quello appena proposto a Roma: Opera Express, un camion organizzato al proprio interno come una mini-sala teatrale in cui far fruire brevi estratti operistici a gruppi di 20-30 persone a volta. Il tempo e lo studio ci diranno la reale possibilità di questi progetti di avvicinare all'opera un nuovo pubblico. Nel frattempo, comunque, non sarà male lavorare per contenere il più possibile il costo dei biglietti nei teatri: un limite fortissimo, per una buona fetta di cittadini, alla possibilità di fruire regolarmente di questo genere artistico.
Michelangelo Pecoraro