Canio | Diego Torre |
Nedda | Monica Conesa |
Tonio | Michael Chiodi |
Silvio | Michael J. Hawk |
Direttore | Carlo Montanaro |
Regia | Dan Wallace Miller |
Scene | Steven C. Kemp |
Costumi | Cynthia Savage |
Luci | Abigail Hoke-Brady |
Maestro del Coro | Michaella Calzaretta |
Maestro del Coro Voci Bianche | Julia Meyering |
Coro e Orchestra dell' Opera di Seattle |
Nonostante il successo duraturo di Pagliacci sui palcoscenici internazionali a partire dal 1892, ci sono voluti oltre vent'anni per poter riascoltare a Seattle l’opera più nota di Ruggero Leoncavallo, stavolta senza la tradizionale accoppiata con Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, una scelta che ha permesso di evidenziare in maniera più incisiva la potenza drammatica dell'opera.
Il compositore, ispirato dai temi sociali del suo tempo e da un evento realmente accaduto, compose non solo la musica, ma anche il libretto, intrecciando in modo indissolubile la narrazione musicale con quella drammatica. Il risultato è un'opera breve ma ricca di intensità espressiva. In Pagliacci, Leoncavallo indaga il complesso rapporto tra realtà e finzione scenica, mettendo in luce il contrasto tra l’essere umano e il personaggio, e rivelando la complessità psicologica dei protagonisti. Questa tensione è chiara fin dal "Prologo", quando Tonio, con il sipario ancora chiuso, svela l'intento dell'autore di offrire "uno squarcio di vita", dichiarando che "al vero ispiravasi" e sottolinea che gli artisti sono "uomini di carne e d'ossa", suggerendo così una fusione tra teatro e vita che li rende indistinguibili. Al contrario, Canio inizialmente percepisce il teatro come un mondo separato dalla realtà. Quando scopre il tradimento di Nedda, la sua visione cambia drasticamente: costretto a togliere la maschera da pagliaccio, sia quella scenica sia quella che indossa nella vita quotidiana, Canio rivela il suo autentico dolore. In questo momento, il teatro si trasforma in vita vera, mostrando la vulnerabilità umana senza l'illusione del palcoscenico.
La regia di Dan Wallace Miller ha dimostrato una notevole capacità di intensificare la rappresentazione e di risuonare con la sensibilità del pubblico contemporaneo, come evidenziato dalla caratterizzazione di Canio, alcolista e misogino, con tratti violenti e prevaricanti nei confronti della moglie Nedda e dei suoi compari. Tuttavia, Miller ha anche adottato scelte spettacolari che hanno indebolito il confronto diretto tra personaggio e pubblico e attenuato la riflessione sul tema cruciale dell'opera, ovvero il rapporto tra realtà e finzione. In particolare, l’opzione di iniziare il "Prologo" a scena aperta, tra la folla, anziché a sipario ancora chiuso, ha complicato questa dinamica e confuso il pubblico riguardo al duplice ruolo di Tonio. Infatti, ha sovrapposto la funzione di narratore a quella di personaggio, rendendo più difficile per gli spettatori distinguere tra l’introduzione del racconto e l’interazione teatrale che segue.
L'allestimento progettato da Steven Kemp, ambientato in un piccolo centro del Sud Italia nel secondo dopoguerra, ha saputo integrare gli elementi tradizionali per quanto riguarda scene e costumi della commedia dell'arte. La scenografia riproduce con precisione il contesto regionale: una piazza centrale circondata da una chiesa e da alcune abitazioni, con una grande scala che offre una vista panoramica sul paesaggio circostante. La calda serata di Ferragosto, caratterizzata dalla festa dell’Assunta e dalla processione in onore della Madonna, illuminata dalle luci calde e dorate curate da Abigail Hoke-Brady, contribuisce a creare un'atmosfera suggestiva e coinvolgente. La rivisitazione dello spazio scenico – simile, ma non perfettamente identico a quello del Lyric Opera di Kansas City, per cui era stato originariamente concepito – ha comportato una modifica nell’entrata dei saltimbanchi, I quali, anziché utilizzare il consueto carro, hanno fatto il loro ingresso trasportando dei grandi bauli. Tale scelta non ha però compromesso l’effetto festoso che accompagna sempre il loro arrivo.
Dal punto di vista musicale, questa produzione ha beneficiato della direzione attenta e sensibile di Carlo Montanaro, che ha valorizzato l'orchestrazione di Leoncavallo, mettendo in risalto l'alternanza tra elementi popolari e classici, caratteristica dell'opera. Con particolare attenzione ai passaggi in cui la musica assume toni quasi pittorici, Montanaro ha guidato l'orchestra nella vivida rappresentazione della vita quotidiana e delle emozioni dei personaggi. Ha reso con grande precisione i contrasti violenti insieme ai toni più languidi e riflessivi, permettendo così un apprezzamento profondo della partitura. La sua direzione ha inoltre compensato alcune incertezze sceniche degli interpreti sostendendo i cantanti nei momenti lirici senza mai sovrastare le voci durante i brani d'insieme.
Tra gli interpreti spiccava Michael Chioldi per la sua notevole interpretazione del ruolo di Tonio. Già noto al pubblico di Seattle, dotato di una estesa gamma vocale ben gestita da una morbida emissione, Chioldi ha dimostrato ottimo controllo vocale con slanci ben calibrati affiancati da notevole presenza scenica. Benché la scelta registica abbia optato per un Tonio privo delle alterazioni fisiche tipicamente associate al personaggio, l'artista è riuscito comunque a esprimere profondamente le sfumature psicologiche del ruolo. Ha abilmente bilanciato malizia e astuzia proprie del personaggio con le sofferenze intime dello stesso, dipingendo così un anti-eroe tormentato e ambiguo.
Il momento culminante, sempre tanto atteso dal pubblico, è senza dubbio "Vesti la giubba", qui interpretato dal tenore Diego Torre nella parte di Canio. Sin dal suo ingresso in scena Torre ha catturato l'attenzione degli spettatori grazie alla sua abilità nel coniugare virtuosismo vocale e intensità drammatica. Al suo debutto a Seattle in un ruolo a lui particolarmente congeniale e già interpretato più volte in precedenza, Torre ha dimostrato grande controllo del personaggio, alternando abilmente i momenti comici con quelli tragici, questi ultimi tutti enfatizzati da un marcato accento drammatico. L'emissione vocale, brillante ed energica, è supportata da una eccellente dizione.
Particolarmente atteso era anche il debutto negli Stati Uniti del soprano cubano-americano Monica Conesa, già nota in Italia per le sue interpretazioni di Aida e La Gioconda a Verona e Norma a Milano. Nel ruolo di Nedda, il soprano ha confermato la sua predisposizione per il repertorio Italiano del tardo Ottocento e primo Novecento, evidenziando buona intensità sonora e agilità nelle note acute; nella tessitura centrale, tuttavia, la sua voce appariva meno brillante, limitata nei cromatismi e con un vibrato poco controllato. Nella ballatella – dove Nedda dovrebbe esprimere fragilità attraverso un canto leggero che imita quello degli uccelli – l’interpretazione della Conesa si è rivelata rigida, mancando della delicatezza necessaria a quel particolare momento narrativo. Inoltre, a tratti si è percepita una mancanza di coesione tra tecnica ed interpretazione, evidente ad esempio nel confronto con Tonio o nel duetto d’amore con Silvio, dove l’intensità drammatica risultava poco spontanea, rendendo meno efficace lo sviluppo del personaggio.
Anche Michael Hawk, che interpretava il giovane paesano Silvio, è sembrato quasi intimidito, incapace di esprimere pienamente la passione per Nedda e la paura di perderla. Nonostante un timbro rotondo e piacevole, la sua performance è risultata poco incisiva, anche a causa di una limitata proiezione vocale e delle ridotte dimensioni degli spazi scenici.
Le dimensioni ridotte della scena hanno anche influito parzialmente sui movimenti del coro, diretto da Michaella Calzaretta, nella prima parte che non gli ha impedito però di apportare un contributo energico e vitale alla narrazione del dramma, trasmettendo efficacemente il senso di una comunità festosa in netto contrasto con la tragedia metateatrale a cui assistono inconsapevolmente. Nella seconda parte, invece, la presenza della scalinata centrale si è rivelata particolarmente efficace, poiché ha permesso al coro di utilizzare i gradini come spalti e di incorniciare il palcoscenico dell’improvvisato teatrino dei saltimbanchi con una presenza scenica ben integrata. Sul rustico palcoscenico allestito davanti alla chiesa, non sono mancati gli elementi farseschi delle maschere della Commedia dell’Arte, tra cui ha spiccato la serenata di Arlecchino, interpretato da John Marzano, la cui voce, dal timbro chiaro e rotondo, si è distinta per precisione nell’emissione e omogeneità nella tessitura.
Gli interpreti sono stati accolti da applausi sostenuti e una standing ovation da parte del pubblico, a coronamento di una serata di successo.
Viviana Coppo