Zaide | Chen Reiss |
Gomatz | Juan Francisco Gatell |
Allazim | Markus Werba |
Soliman | Paul Nilon |
Osmin | Davide Giangregorio |
Schiavo 1 | Raffaele Feo |
Schiavo 2 | Luca Cervoni |
Schiavo 3 | Domingo Pellicola |
Schiavo 4 | Rodrigo Ortiz |
Narratore | Remo Girone |
Direttore d'orchestra | Daniele Gatti |
Regia | Graham Vick |
Scene & costumi | Italo Grassi |
Luci | Giuseppe Di Iorio |
Movimenti mimici | Ron Howell |
Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma |
Lontano dalla pompa retorica del Circo Massimo, il Teatro dell’Opera di Roma e il suo pubblico ritrovano una piacevole comunione. Il contesto dell’attuale pandemia non è pacifico né allegro. Molti spettatori, sia all’inizio che nel corso dell’intervallo, discutono animatamente sulla questione teatrale all’ordine del giorno: tenere aperti i teatri oppure no?
L’organizzazione del teatro e l’atteggiamento dei presenti, comunque, sembrano rassicuranti, almeno in parte. Si comincia con la fila all’ingresso, ben distanziata, seguita dalla compilazione di un’autocertificazione e dalla raccolta dei dati all’ingresso; poi, dopo la misurazione della temperatura corporea, si entra. La prima cosa che si nota all’interno è il gran numero di sedute non fruibili per mantenere le giuste distanze in sala. Nel corso della serata, poi, viene prestata molta attenzione agli spostamenti in entrata e in uscita. Gli applausi sparuti che riecheggiano nella sala, sotto il grande lampadario e l’affresco di Brugnoli, hanno il sapore dolceamaro del “meglio questo che niente”. Sembra a tratti una recita collettiva, in cui tutti si sforzano di svolgere al meglio la propria parte: il pubblico applaude, gli interpreti sorridono sul palco, ma su tutto aleggia uno spettro a cui non si può fare a meno di pensare.
L’occasione, però, è rara e stuzzicante: si rappresenta un singspiel postumo e incompiuto di Mozart, Zaide, del quale sono conservati solo 15 brani musicati (parti cantate o melologhi). Mancano almeno i dialoghi parlati che avrebbero dovuto alternarsi ai brani, l’ouverture e una scena finale, ma gli studiosi discutono la possibilità che dovesse ancora essere messo in musica un altro intero atto.
La scelta del teatro è stata quella di usare un testo poco conosciuto scritto da Italo Calvino nel 1982, in occasione di una rappresentazione veneziana di Zaide. Il testo è un vero e proprio meta-libretto e consente una divertente messa in scena che procede per ipotesi parallele sullo svolgimento della trama. Come in altre opere di Calvino, la riflessione sull’intreccio procede parallelamente al dipanarsi dei fili: quali saranno le motivazioni che spingono il sultano, oppure il primo ministro del sultano, a cantare quelle frasi? Sono spinti da amore, da altruismo, da coraggio, cupidigia o gelosia? Calvino e il regista Graham Vick ci fanno correre avanti e indietro lungo la storia, facendoci rivedere (e riascoltare) più volte le stesse scene, proponendoci diversi punti di vista onde cogliere le ipotetiche motivazioni che spingono i personaggi. Un’operazione che consente di godere i brani musicali gustando anche il piacere dell’incompiutezza e del fattore meta-artistico presente in molta arte di Mozart e Calvino. L’espediente immaginato da Calvino è la presenza di un narratore che, dopo aver trovato alcune pagine con brani di un’antica storia all’interno di un baule, cuce tra loro i frammenti di narrazione con la propria immaginazione.
La regia di Vick, come ci si poteva attendere, valorizza la recitazione degli interpreti e l’elemento meta-teatrale. Molto contribuiscono le scene e i costumi di Italo Grassi. La scena rappresenta letteralmente un cantiere aperto, all’interno del quale fervono dei lavori. Durante il terzetto, mentre Zaide canta “Ma ecco là lontano rosseggianti comete!”, un saldatore in fondo al palco schizza scintille in aria. A sinistra, delle impalcature coperte dal reticolato arancione tipico dei “lavori in corso” rappresentano il serraglio del sultano. Al centro del palco, pochi oggetti che appaiono, scompaiono o si trasformano nel corso della storia. Il baule, all’inizio. Il tavolino e la sedia su cui si lascia andare, di tanto in tanto, il narratore. Una sorta di grande contenitore metallico giallo, con un tubo modulare che sale verso l’alto e che viene prima sfruttato dall’innamorato per arrampicarsi verso le stanze della principessa, poi trasformato in palma per le scene desertiche. Un cumulo di sabbia per rappresentare il deserto. Un’enorme superficie plastica trasparente usata per creare una gustosa simulazione della pioggia che cade su Zaide che si lava e si cambia dietro un velo. In questo cantiere contemporaneo, si aggirano in costumi esotici d’epoca i personaggi della narrazione.
Daniele Gatti,ancora una volta, sceglie di lavorare spalla a spalla con il regista allo scopo di realizzare uno spettacolo coerente tra buca e palco (vedi anche, nel libretto di sala e nella gallery qui a fianco, la foto a doppia pagina di Yasuko Kageyama,dal forte sapore simbolico, in cui il direttore e il regista confabulano con le mascherine sul volto). Grande disponibilità e generosità sia del direttore che dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, anche nell’assecondare la scelta di far ripetere delle sequenze sul palco con la ripetizione degli stessi momenti musicali, allo scopo di creare un effetto-flashback cinematografico. Sulla qualità musicale di Zaide, Gatti (e Alberto Mattioli che lo intervista nel programma di sala) non mostra dubbi, specificando di trovare “le soluzioni musicali più ardite dell’opera, specie dal punto di vista armonico”, nei due melologhi; il primo, in particolare, cioè quello affidato al personaggio di Gomatz, “ha una forza drammatica notevole, una grande efficacia teatrale”, e in effetti è uno dei momenti più riusciti della serata, anche grazie alla coinvolgente interpretazione di Juan Francisco Gatell, alla sua voce da tenore “di grazia” e alle sue capacità attoriali.
Il cast è di buon livello e, cosa importante, molto attento alla recitazione, come sempre quando c’è Vick in cabina di regia. Buona prova per Chen Reiss nei panni di Zaide, la più applaudita a fine serata: la voce da soprano leggero si destreggia bene nella coloratura e nell’ottava superiore, creando una principessa delicata ma volitiva; inoltre, se la cava molto bene nei movimenti coreografici. Bene anche Markus Werba nei panni dell’ambiguo ministro Allazim. Il baritono austriaco, spesso apprezzato a Roma negli ultimi anni (per esempio in un recente Eugenij Onegin molto bello),mette in mostra una voce squillante e di buon volume unita a un fraseggio arguto, oltre alla sua capacità istrionica di tenere il palco. Solimano è Paul Nilon, tenore dalla voce non molto potente che canta con professionalità e interpreta con convinzione. Molto interessante l’Osmin di Davide Giangregorio, dalla voce ampia e ben governata. Nei ruoli di contorno, anche un paio di giovani talenti inseriti nel percorso giovanile Fabbrica – Young artist program del Teatro dell’Opera di Roma.
A interpretare il narratore è Remo Girone. L’attore si mette in gioco con convinzione e se da un lato la memoria gioca qualche brutto scherzo, dall’altro la lunga esperienza gli consente di cavarsela con nonchalance in ogni occasione.
La recensione si riferisce allo spettacolo di martedì 20 ottobre 2020.
Michelangelo Pecoraro