Pianoforte | Beatrice Rana |
Direttore | Antonio Pappano |
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia | |
Wolfgang Amadeus Mozart | Sinfonia n. 35 K 385 “Haffner” |
Arnold Schönberg | Kammersymphonie op.9 |
Robert Schumann | Concerto per pianoforte e orchestra in la minore op. 54 |
É innegabile: gli spettacoli in streaming si stanno felicemente moltiplicando. Ogni istituzione concertistica, o teatro che sia, sembra voler dire la sua nel continuo flusso digitale che ci assicura la fruizione della grande musica anche in questo difficile periodo.
All’appello non poteva mancare l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che il 6 novembre ha eseguito all’Auditorium Parco della Musica di Roma un densissimo programma, comprendente la Sinfonia K 385 di Mozart, detta “Haffner”, la Kammersymphonie op. 9 di Schönberg e il Concerto op. 54 di Schumann. Alla guida dell’orchestra il collaudatissimo Antonio Pappano, solista la giovanissima star Beatrice Rana.
Il programma presenta delle assonanze nascoste e felici. La “Haffner”, così come il concerto di Schumann, ha avuto una gestazione non lineare, essendo nata su commissione come Serenata e poi ripresa da un Mozart egli stesso sorpreso di aver concepito un’opera così geniale, ma della quale non ricordava granchè. Il primo movimento della “Haffner” presenta poi un tema imperioso d’apertura che domina per tutto il pezzo, così come nel concerto di Schumann il celebre tema del primo movimento viene riproposto nelle varie sezioni quasi seguendo il principio della variazione.
La Kammersymphonie op. 9 di Schönberg, dal canto suo, è un lavoro rivoluzionario, nella forma e soprattutto nei contenuti (vi è l’annuncio programmatico della svolta dodecafonica), ma anche nell’organico, trattandosi di una formazione cameristica allargata (quindici strumenti). Analogamente, il Concerto di Schumann è stato sovente definito un pezzo pianistico con un accompagnamento orchestrale light, di stampo prettamente cameristico.
Strana storia, per la verità, quella del Concerto di Schumann. Si tratta di un’opera che, come si accennava, ha faticato nelle intenzioni dell’autore a trovare un’identità precisa, quanto alla denominazione e alla forma ("qualcosa a metà tra sinfonia, concerto e grande sonata", lettera a Clara del 1839). E benché esso venga accostato spesso al Concerto in la minore di Grieg, con il quale presenta più di un punto di contatto (oltre all’identica tonalità), il tormentato iter creativo, il carattere “sinfonico” e la pressoché compiuta integrazione tra pianoforte ed orchestra, lo avvicinano maggiormente a quella “sinfonia con pianoforte obbligato” che è il Concerto op. 15 di Brahms. Ma paradossalmente il concerto di Schumann con il tempo è finito per diventare un pezzo leggendario del repertorio pianistico, o meglio, un pezzo capace, se suonato bene, di far diventare leggendario proprio il solista.
Venendo all’esecuzione, essa è stata veramente pregevole. La “Haffner”, nella visione di Pappano, forse non ha la leggerezza tipica di certe esecuzioni di Abbado, ma riesce a trovare l’equilibrio tra la virilità dei temi principali e la calcolata semplicità dell’impianto sinfonico (che ha consentito di accostarla alla Ottava sinfonia di Beethoven). Nei movimenti veloci Pappano è riuscito a conservare la chiarezza espositiva, evitando ad esempio di eseguire l’ultimo movimento “il più veloce possibile” (consigliato dallo stesso Mozart). Ne è scaturito un insieme estremamente uniforme e godibile all’ascolto.
La Kammersymphonie è stata resa anch’essa in maniera estremamente convincente. Ciò che si è potuto apprezzare maggiormente, oltre alla chiarezza “fisica” degli intrecci strumentali, è stata anche la chiarezza formale, che ha consentito di individuare agevolmente le singole parti della composizione (assimilabili, secondo una tesi, a cinque movimenti di una sinfonia tradizionale). É d’obbligo poi un plauso ai singoli strumentisti, considerata la difficoltà esecutiva di ciascuna parte.
Il Concerto di Schumann ha visto invece come protagonista Beatrice Rana, che ha solo 27 anni e nessuna necessità di essere presentata. Il fatto che sia arrivata seconda al Concorso Van Cliburn nel 2013 è ormai quasi un dettaglio sbiadito rispetto alla stima e al successo che ha conquistato in questi anni sul campo, e cioé i palcoscenici più importanti del mondo. Detto ciò, quello che colpisce di questa giovane pianista è, a mio avviso, il modo in cui essa sembra curare la propria crescita di artista, vista l’evoluzione che già comincia ad intravedersi nel suo stile, ma anche nelle scelte di repertorio e nel modo in cui affonta i capisaldi della letteratura pianistica.
Il Concerto di Schumann viene affrontato dalla pianista salentina in chiave prettamente poetica e antimuscolare, coerentemente con quella che è stata la genesi dell’opera e il suo travagliato background.
Ne è spia già il celebre primo tema: la pianista disegna un arco che attraversa quell’unica bellissima frase grazie a dei microrespiri che tengono l’ascoltatore sospeso, ma senza tensione; la perfetta chiusa ha la naturalezza di una espirazione. Tutto il movimento viene condotto con discrezione e raffinata ricerca sonora. Siamo ben lontani dalle cavalcate sorde e un po’ ottuse che si sentono troppo spesso, ed anche le ottave in ff sono intrise di una pensosa nobiltà, in luogo della solita pesantezza. Magistrale l’esecuzione di tutto il secondo episodio tematico; indimenticabile il suono, ma direi più il sommesso brontolìo, delicato e virile al tempo stesso, degli arpeggi che discendono verso la zona grave della tastiera. Paradisiaco l’Andante espressivo della sezione di sviluppo (e sarei curioso a questo punto di sentire dall'artista lo Chopin dal Carnaval op. 9…), mentre densa di colori e di personalissime dinamiche è la Cadenza, dove tra le tante bellezze spicca il lungo trillo, cristallino e umanissimo proprio perchè volutamente non eseguito alla massima velocità. Discreta ma personalissima la voce dell’orchestra, che non dispensa minor contenuto poetico.
Nell’Andantino grazioso gli esecutori pongono l’accento sul “grazioso”, senza farlo diventare mai lezioso. La sezione centrale è ariosa ma non lacrimevole e vede protagonisti i violoncelli, il cui legato è una fantastica approssimazione della voce umana.
L’Allegro vivace dà occasione alla pianista salentina di sfoggiare una esemplare sicurezza nei temibili passaggi, specialmente arpeggi e salti disseminati un po’ ovunque, e realizzati sempre con quella aurea misura già sperimentata nell’Allegro affettuoso. Tuttavia questo terzo movimento mi ha leggermente meno entusiasmato, in particolar modo nella coda, nella quale mi è sembrato che in alcuni punti la tensione scendesse al di sotto del minimo consentito da una conclusione che è tra le più brillanti della letteratura per pianoforte e orchestra. Segno forse che il difficile tentativo di saldare l’approccio “poetico” con quello “muscolare” può nascondere qualche insidia. Ma il tentativo c’è, è nel complesso splendidamente riuscito, e a farlo è una giovane, vera artista. D’altronde, diceva il grande Carlo Zecchi a proposito di quest’opera, “qui si richiede più intelligenza musicale che non martellamento di dita, più poesia che non orgiastiche feste sonore, più intima commozione che non effetti a buon mercato, e i veri artisti, quelli che sanno mettere la loro preparazione tecnica al servizio di una nobile idea, troveranno in questo concerto la loro più alta soddisfazione”. Parole che travalicano i decenni e diventano attuali ogni qualvolta uno di quegli artisti si siede al pianoforte, come è avvenuto proprio questa sera.
La recensione si riferisce alla diretta streaming del 6 novembre 2020.
Lorenzo Cannistrà