Giulio Cesare | Raffaele Pe |
Cleopatra | Marie Lys |
Achilla | Davide Giangregorio |
Cornelia | Delphine Galou |
Tolomeo | Filippo Mineccia |
Sesto | Federico Fiorio |
Nireno | Andrea Gavagnin |
Curro | Clemente Antonio Daliotti |
Regia | Chiara Muti |
Scene | Alessandro Camera |
Light designer | Vincent Longuemare |
Accademia Bizantina | |
Direttore al clavicembalo Ottavio Dantone |
Per il quarto anno consecutivo il Teatro Alighieri inaugura con un’opera del grande repertorio barocco. Quest’anno tocca a Giulio Cesare, spettacolo che nasce a Ravenna per proseguire verso i teatri impegnati nella coproduzione: Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Lucca e la Fondazione Haydn di Bolzano e Trento.
Il titolo è tra i più impegnativi tra i capolavori di Georg Friedrich Händel. Giulio Cesare è un’opera complessa, carica di memoria interpretativa, soggetta a grandi aspettative, un golem del repertorio dell’epoca che richiede grandi sforzi sia dal punto di vista musicale che da quello drammaturgico.
La vicenda si impernia su due poli non necessariamente antitetici: i romani (Giulio Cesare, Cornelia e Sesto) e gli egiziani (Cleopatra e Tolomeo). Le tensioni e le relazioni tra i personaggi mutano continuamente, condizionate dai sentimenti e dall’ambizione per il potere. Così l’antagonismo tra Roma e l’Egitto confluisce in una lotta interna tra Cleopatra e il fratello Tolomeo, complicata da attrazioni amorose incrociate tra i due campi. Se alcuni caratteri sono fermi nella loro determinazione (Cornelia e Sesto), altri cambiano in corso d’opera dando vita a quella galleria degli affetti tipica dell’opera barocca.
Chiara Muti, regista, opta per una ambientazione atemporale, con accenni a epoche diverse: gli egiziani in un loro tempo immaginario, i romani in orbace da fascisti. La scena di Alessandro Camera è neutra, basata su alcuni massi che si spostano qua e là, fino a comporre nel finale il volto di Cesare. Sono volumi bassi, monocromi e inespressivi, poco adatti a incidere su una visione che resta senza profondità e verticalità. C'è anche molto fumo, di cui non sempre si avverte l'urgenza espressiva. Due velari neri si alzano e si abbassano in coincidenza con le grandi arie, isolando in proscenio gli interpreti impegnati nei da capo, forse per enfatizzare il senso delle riprese. Le arie sono corredate, si presume con fini didascalici ed esplicativi, da gruppi di figuranti che circondano i cantanti e agiscono con gesti basici, vuoti di spessore e significato. In questo standard spoglio di idee, si inseriscono alcuni spunti estemporanei, come la scena di violenza tra Tolomeo e Cornelia, chiaro riferimento agli abusi sulle donne di cui tanto si discute, e un richiamo shakesperiano al Sogno di una notte di mezza estate nell’aria feticcio “V’adoro, pupille”, straniante ma curioso, purtroppo non sostenuto da una parte visiva all’altezza. In questo contesto vago e sfuggente, si muovono i personaggi senza l’apporto di una direzione che li caratterizzi.
Raffaele Pe, Giulio Cesare, se da una parte ha lo spirito e la personalità del protagonista, vocalmente ha chiare difficoltà nelle agilità in un ruolo da questo lato molto esigente. Si riprende nel terzo atto e ci lascia un bel ricordo con “Aure, deh, per pietà”, struggente e presago di eventi funesti. Marie Lys, giovane soprano molto attrezzata nell’ambito della vocalità barocca, tiene la parte con sicurezza e personalità. Il timbro è gradevole, l’emissione è fluida e la padronanza di ogni sorta di virtuosismo è palese. Come interprete è sensibile, disinvolta in scena e credibile come personaggio, capace com’è di sorvolare con leggerezza sulle mille insidie tecniche di cui è disseminata la sua parte. Delphine Galou ha sensibilità e spessore degni di un personaggio moralmente tutto d’un pezzo come Cornelia. Subisce le vessazioni di Tolomeo con dignità, protegge il figlio Sesto con cui condivide uno dei momenti più alti dal punto di vista musicale, il duetto in finale di primo atto, “Son nata a lagrimar”. Filippo Mineccia è vocalmente inappuntabile, odioso e protervo, un cattivo ben riuscito. Federico Fiorio, con la sua voce chiara, sottolinea la giovinezza e la fragilità di Sesto, figlio di Cornelia. Il basso Davide Giangregorio è un ottimo Achilla, in risalto in apertura del terzo atto con “Dal fulgor di questa spada”. Il controtenore Andrea Gavagnin, Nireno di parte egizia e il baritono Clemente Antonio Daliotti, Curio in forza ai romani, fanno tutto per bene.
Ottavio Dantonee l’Accademia Bizantina tengono le fila del lato musicale con la consueta efficienza. A luci accese e già durante i ringraziamenti finali attaccheranno il finale con il coro in un tutti finalmente festante, in piena luce e con la gioia di cantare e suonare insieme, nel momento più sentito di tutta la serata.
La sala, piena in ogni ordine, ha accolto con applausi convinti l’intero cast.
La recensione si riferisce alla prima rappresentazione del 17 gennaio 2025.
Daniela Goldoni