Waldemar | Andreas Schager |
Tove | Camilla Nylund |
Waldtaube | Okka von der Damerau |
Bauer/Sprecher | Michael Volle |
Klaus Narr | Norbert Ernst |
Direttore | Riccardo Chailly |
Maestro del Coro del Teatro alla Scala | Alberto Malazzi |
Maestro del Chor der Bayerischen Rundfunks | Peter Dijkstra |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala | |
Chor des Bayerischen Rundfunks | |
Programma | |
Arnold Schönberg | Gurre-Lieder per soli, coro e orchestra |
Nel 150° della nascita di Arnold Schönberg |
Il 13 settembre, non a caso il giorno del suo compleanno, è la data scelta per le celebrazioni del 150° anniversario della nascita di Arnold Schönberg. Tra notti trasfigurate e attese espressioniste non si può certo dire che il decano della Seconda scuola di Vienna sia assente dalle programmazioni del Piermarini, quindi ci si attendeva senz’altro un titolo rilevante per questa occasione, ma fino all’annuncio della scorsa stagione non si osava nemmeno sperare nei Gurre-Lieder. Monumentali, costosissimi, di immane difficoltà per il direttore, hanno conosciuto l’ultima esecuzione scaligera ben cinquantuno anni fa in un memorabile concerto diretto da Zubin Mehta. Nessun altro titolo avrebbe potuto essere più adatto per la ricorrenza, non solo per l’intrinseco valore artistico ma anche per il posto che questi occupano nella creatività schönberghiana, non a caso le note di Paolo Petazzi per il programma di sala propongono in corpo grande una citazione dell’autore che inizia asserendo: «Quest’opera è la chiave della mia intera evoluzione».
Nella percezione comune (anche di chi fa musica) si tende a sovrapporre quasi completamente la figura di Schönberg al suo «metodo di composizione con dodici note», così facendo si vuole imporre un passaggio graduale e uniforme dall’espressionismo di matrice tardo-romantica al serialismo, un’ombra che si allunga sempre più verso le inquietudini del Novecento, quando in realtà questo percorso creativo è stato tutt’altro che uniforme o lineare ma pieno di interruzioni e bruschi cambi di rotta, idiosincrasie, mutamenti di prospettiva anche radicali persino sulle stesse regole della dodecafonia, rigidamente formulate nella conferenza di Princeton del 1934 e poi molto ammorbidite nella conferenza di Chicago del 1946 (in cui peraltro apre alla possibilità di singoli eventi di ambito tonale, sulla scorta dell’attività del famulus Berg). Su queste stesse pagine abbiamo già affrontato il problema delle ambiguità stilistiche di Schönberg parlando della seconda Kammersymphonie: composta nell’arco di un decennio e revisionata dopo ben ventitré anni, ancora oggi può suscitare sensazione se si pensa che è stata ultimata dopo il raggiungimento della sospensione tonale e rielaborata nel pieno degli ascetici furori seriali. A proposto di questa apparente dissonanza, lo stesso autore ebbe ad ammettere di non essere «destinato a continuare alla maniera della Verklärte Nacht o dei Gurre-Lieder o ancora di Pelleas und Melisande. Il Comandante Supremo mi aveva ordinato una strada più difficile. Ma il desiderio di tornare al vecchio stile era sempre vigoroso in me, e di tanto in tanto dovevo cedere a questo impulso». Questa lucidissima consapevolezza illumina anche il tortuoso cammino dei Gurre-Lieder.
Ci piace pensare che con questo o quel titolo del suo catalogo Arnold Schönberg pareggi i conti con il proprio passato e tracci una linea continua verso il futuro, ma la realtà dei fatti non potrebbe essere più diversa: in Schönberg il passato si affaccia continuamente in ogni pagina, in ogni misura, in ogni tratto contrappuntistico che impiega in modo non tradizionale ma di fatto ha ereditato dalla scuola franco-fiamminga del XV secolo e non fa nulla per nasconderlo: anzi, è suo preciso desiderio che questi elementi siano chiaramente udibili.
I Gurre-Lieder nascono inizialmente come la Verklärte Nacht, vale a dire per un concorso. Ci si rende presto conto del fatto che l’ideazione non sia compatibile con un concorso di composizione e il resto della vicenda è ben noto, compreso il decennio (non continuativo) richiesto per il completamento dell’enorme partitura. Ma già in questo frangente esiste un dato stilisticamente interessante che chiama in causa proprio il tempo impiegato per la stesura, in quanto le prime due sezioni sono coeve e in effetti linguaggio e orchestrazione sono del tutto consimili; la terza sezione è quella cronologicamente più distante e – cosa più importante – Schönberg ha fatto in modo che la differenza in particolare sulla tecnica dell’orchestrazione fosse ben evidente. L’unica vera costante nell’opera di un compositore è il cambiamento; a livello di ascolto superficiale questo può essere più facilmente rilevabile (Stravinskij) o meno (Bach), ma la metamorfosi del cambiamento è la grande forza che lega le pagine di tutti gli autori e Schönberg non intende fare mistero di questo, né sono misteriose le influenze di Wagner, Strauss e Mahler in particolare nelle due sezioni più risalenti. La grandiosità dei Gurre-Lieder non sta nei versi di Jens Peter Jacobsen, nel numero di coristi o nella magniloquenza della massa orchestrale, piuttosto è nella capacità dell’autore di restituire un’immagine fresca, vivida di uno spaccato culturale e contemporaneamente proiettarlo verso un futuro di cui ancora non si ha contezza.
Ma cosa sono in pratica questi Gurre-Lieder? Nulla di preciso e tante cose fuse insieme senza soluzione di continuità; un’ottima controprova è rappresentata dall’assoluta assenza di un qualsiasi sottotitolo chiarificatore, ci si limita al generico Gurre-Lieder von Jens Peter Jacobsen, Deutsch von Robert Franz Arnold, für Soli, Chor, und Orchester («Gurre-Lieder di Jens Peter Jacobsen, traduzione in tedesco di Robert Franz Arnold, per soli, coro e orchestra»). Da una parte sono un ciclo di Lieder, ma sono anche una sorta di cantata-oratorio, però sono anche una sinfonia drammatica ossia con un preciso programma drammaturgico e cantanti, si potrebbero anche considerare un’opera non scenica o latente. In esattezza nessuna di queste singole categorie è in grado di contenere i Gurre-Lieder nella loro interezza, ma i Gurre-Lieder le contengono tutte, una polivalenza formale senza precedenti nella storia della musica. Peraltro, è proprio la drammaturgia a fornire organicità a questo mare magnum non etichettabile, un elemento che caratterizza il mondo compositivo schönberghiano nell’intorno dell’epoca di composizione dei “Canti di Gurre”, 1900 – 1911, in cui fioriscono lavori di teatro musicale (Pelleas und Melisande nel 1903, Erwartung nel 1909 e Die glückliche Hand nel 1910-1913) o in cui il motore drammaturgico è comunque fondamentale, che si tratti di musica con la voce (Pierrot lunaire, 1912) o strumentale (Verklärte Nacht, 1899, di evidente matrice wagneriana), senza contare i Drei Klavierstüke op. 11 del 1909, nel cui n. 3 raggiunge la completa e cosciente sospensione tonale.
Certo, la successione di Lieder – perché di questo si tratta – è organizzata in modo da avere una successione logica di eventi, non si sente lo scalino dei vari numeri chiusi perché la musica dell’uno sfocia direttamente nell’altro e i vari preludi e interludi forniscono quella cornice che contribuisce all’impressione di unitarietà, ma quel che ci tiene inchiodati alla poltrona per l’ora e quaranta minuti di musica è l’ininterrotto flusso drammaturgico che ci conduce dai canti d’amore di Waldemar e Tove al compianto della Colomba di Gurre per la morte di Tove fino alla cavalcata dei morti (la celebre caccia selvaggia, in Lombardia è nota anche come cacciamorta) destinata a dissolversi al sorgere del sole.
Naturalmente questo ha precise implicazioni pratiche: il direttore non solo deve gestire gli enormi ranghi dell’orchestra, i tre cori e i cinque solisti, ma deve pure avere cura della drammaturgia trasversale, il quid che costituisce la giustificazione e il senso dello straripante melodismo profumato di fin de siècle. Riccardo Chailly non solo ha ben compreso questa necessità ma l’ha interpretata al meglio facendosi garante della restituzione al pubblico dello sconvolgente impatto dei Gurre-Lieder. La composizione è puro calcolo, la cosciente messa in atto di meccanismi e strategie, però questo non significa rinunciare alla comunicazione né all’emotività: il creatore della dodecafonia richiede molta più forza espressiva di quel che ci si potrebbe scioccamente attendere e Chailly riesce a fornire alla musica esattamente la potenza che questa domanda, un’energia pari alla chiarezza che il direttore – davvero in stato di grazia – richiede a un’Orchestra del Teatro alla Scala più formidabile che mai. Questo è il direttore musicale che vorremmo ammirare ogni sera, proprio come avvenuto con il Requiem verdiano lo scorso maggio. Viene ben sottolineata anche l’aura estatica che tanto di frequente riluce in queste pagine come nello stesso Preludio orchestrale, ma anche nelle molte preziosità che il gesto di Chailly non manca di far emergere come quelle sestine dei primi violini divisi in “Tauben von Gurre!” («Weit flog ich, Klage sucht» ecc.) o il meraviglioso passo dei contrabbassi divisi a sei, con un’orchestra più arroventata che mai.
Impeccabile il Coro del Teatro alla Scala preparato da Alberto Malazzi, affiancato per l’occasione dal Chor der Bayerischen Rundfunks preparato da Peter Dijkstra (in effetti da quelle latitudini Simon Rattle ha compiuto la stessa operazione ad aprile). È chiaro che l’eccezionale massa orchestrale costringe il coro sul fondo del palco, ma questo non scalfisce per niente la pregevolissima esecuzione di un titolo tanto impervio.
Di alto profilo le prove dei cinque solisti: a onor del vero qualche passaggio avrebbe potuto essere più cristallino e ci sono state anche singole note verso l’acuto non pulitissime, ma data la scrittura particolarmente impervia chi scrive non sente di farne una questione. Andreas Schager – alias Waldemar – è sottoposto a un’autentica prova di resistenza, oltre ad essere il più esposto e l’interprete con la parte più lunga fra i cinque coinvolti, ed esce dal cimento a testa alta grazie all’intonazione salda, all’emissione dalla facile generosità e dall’innegabile bravura nella recitazione. Eccellente la Tove di Camilla Nylund: la messa di voce è omogenea e la sua morbidezza si sposa bene al bel colore del timbro, corposo ma gentile; ben appoggiata su tutta l’estensione, riesce con intelligenza a non far udire in modo marcato il passaggio di registro (in effetti quasi invisibile) e il fraseggio è condotto con estrema cura.
Okka von der Damerau è chiamata a interpretare Waldtaube, la colomba dei boschi di Gurre, e si rende protagonista del compianto per Tove già sopra menzionato. In questo frangente von der Damerau firma un’esecuzione commovente e di grande sensibilità, con una buona proiezione vocale in particolar modo nel registro acuto.
Ottimo Klaus Narr (Klaus il folle) che Norbert Ernst tratteggia con graffiante sarcasmo e un puntiglio nella linea vocale più che encomiabile ma sempre attentissimo a non appesantire il vero e proprio intermezzo comico di cui si rende finissimo protagonista. Eccellente Michael Volle, ben noto al pubblico della Scala per il Wozzeck del 2015 diretto da Metzmacher o per i Meistersinger del 2017. Volle, più che nella parte effettivamente cantata – cioè del Contadino (Bauer) – brilla in quella del conclusivo Sprecher: questo Narratore è molto distante dalla figura omonima del teatro, anche cameristico, dell’Ottocento e in particolare questa precisa declinazione si produce in quella Sprechmelodie che si sarebbe meglio concretizzata nelle opere seguenti, una su tutte il Pierrot lunaire che avrebbe visto la luce solo l’anno successivo alla conclusione dei Gurre-Lieder. Nelle vesti di Sprecher il baritono fornisce una prova attoriale di notevole statura nella quale si apprezza per il timbro umbratile, sfoggiando uno strumento dalla pasta omogenea e molto sonora, a cui si aggiunge il merito di una dizione perfetta.
In conclusione, non si poteva chiedere un risultato più luminoso di quanto raggiunto stasera sulle tavole del Piermarini. Il risultato artistico raggiunto è tale da rendere questa sola produzione più che sufficiente per poter affermare che il centocinquantenario schönberghiano è stato degnamente celebrato.
La recensione si riferisce al concerto del 13 settembre 2024.
Luca Fialdini