Direttore | Esa-Pekka Salonen |
Orchestre de Paris | |
Programma | |
Maurice Ravel | Pavane pour une infante defunte |
Béla Bartók | Il mandarino meraviglioso SZ 73b |
Hector Berlioz | Symphonie fantastique: Épisode de la vie d'un artiste, en cinq parties op. 14 |
Visions et passions | |
Un bal: Valse | |
Scène au champ | |
Marche au supplice | |
Songe d'une nuit du Sabbat |
Esa-Pekka Salonen torna al Teatro alla Scala per la prima volta dal 2014 e per la rentrée si propone alla testa dell’Orchestre de Paris. Di norma non è lecito il supporre o il dare per scontato l’esito di un concerto, ma raramente al Piermarini si può assistere a un’accoglienza tanto “schierata” da parte di un pubblico che ha salutato con grandissimo entusiasmo il direttore finlandese sin dal suo ingresso in sala. Il concerto – capolinea del tour de force che ha toccato Torino e Ferrara – prevede un programma decisamente congeniale a Salonen, in cui si intrecciano il Novecento più folklorico e aggressivo, quell’Ottocento sedotto dalle sperimentazioni e il gusto art nouveau.
A quest’ultimo caso appartiene naturalmente l’amata Pavane pour une infante defunte di Ravel, lavoro totalmente differente dai due successivi ma che in qualche modo contiene in nuce tutti gli elementi che caratterizzeranno la serata: il gesto morbido e molto comunicativo di Salonen, la pulizia dell’orchestra, lo scavo intelligente nella partitura, il tutto teso a rendere nel modo migliore la partitura senza alcuna pedanteria (segno che le esecuzioni filologiche possano esistere senza torturare partitura e platea); pensieri e procedimenti complessi si esplicitano in una semplicità disarmante ed ecco che i passi delicati della Pavane arrivano sinceri all’ascoltatore, trine delicate di Velàzques appena mosse dagli sbuffi dell’arpa.
Crudissima e infiammata la suite dal Mandarino meraviglioso di Bartók, un titolo che il direttore ha inciso nella versione completa nel 2016 con la Philharmonia Orchestra. La scrittura complessa mette in luce la compattezza dell’orchestra che evoca sulle tavole del Piermarini il respiro teso dell’unica, cupa pantomima firmata dal compositore magiaro; si apprezzano il bilanciamento tra le famiglie di strumenti, l’intonazione solida dei legni (soprattutto nelle lunghe sezioni in piano stagnanti), l’angoscioso lamento degli ottoni che percuote impietoso sul nervo acustico. Se Ravel era pieno di bon-ton e delicatezze, per la musica di Bartók si adotta una lettura incisiva in cui il suono è violenza e inquietudine, si espongono in bella evidenza i contrasti e le mutazioni timbriche di cui questo brano è così ricco, come nel ruvido finale in cui ogni strumento si trasforma in percussione, il tutto inquadrato in una serie di tempi straordinariamente azzeccati; in breve Salonen dimostra ancora una volta di essere uno dei direttori più intelligenti e raffinati per questo genere di repertorio, dotato di una efficacissima capacità di comprendere l’esatto spirito della partitura e soprattutto di saperlo cavare dall’orchestra in modo altrettanto efficiente.
Tuttavia per molti la sorpresa maggiore riguarda senz’altro la monumentale Symphonie Fantastique del non mai abbastanza apprezzato Berlioz. Nel nostro immaginario questa sinfonia richiama l’anno in cui è stata composta, il 1830, e tutti gli ammennicoli ad esso connessi: romanticismo ruspante, colletti alzati, mattoni letterari, aura grave dell’artista maledetto e tutta la rigidità del post-Restaurazione. Ciò che sfugge, a molti ma non a Salonen, è quel che fa Berlioz in questo antesignano del poema sinfonico: per la creazione dell’ambientazione, dello sfondo e dei personaggi che danzano davanti a questo il compositore pesca a piene mani dall’immaginario coevo, quindi portandosi dietro la polvere delle feste danzanti, l’odore di oppio e assenzio, l’eterna retorica dell’artista che soffre (per amore, che Dio ci salvi!) e la curia di visioni infernali che all’epoca andavano di moda oltralpe, ma la musica e l’orchestra che ha in mente non sono del 1830. Il tiro non è perfettamente centrato e la strada da fare è ancora lunga, però nella partitura ci sono già alcuni semi pronti a germogliare solo verso la seconda metà del secolo e che allungano i propri rami oltre la barriera del 1901; è il caso del primo movimento, per decenni considerato incomprensibile dalla critica quando invece è una delle prime apparizioni di una struttura “a rete”, assai più familiare nel periodo espressionista di Schönberg, oppure della raffinatissima ricerca timbrica: l’etichetta di megalomane appiccicata sulla fronte di Berlioz rischia di far passare in secondo piano quanto abbia investito nella ricerca di nuove sonorità nella sua produzione in generale e in questa sinfonia in particolare, basti pensare alle due – e sottolineo due – note che si premura di far eseguire ai corni con sordina di metallo nel quinto movimento, lo stesso in cui appare una regione considerevole in cui si impiegano estensivamente gli archi suonati con il legno o al ponticello, l’uso chirurgico e affatto scontato dei piatti nel quarto movimento, per non citare altro che gli esempi più clamorosi. Salonen stesso investe di tasca sua su queste schegge di modernità nel linguaggio di Berlioz e a molti sarà sembrato di non aver mai udito veramente questa sinfonia; ciò che il direttore finlandese è riuscito a fare è di eliminare l’odore di naftalina dalle pagine della Fantastique e di restituirne l’aspetto di capolavoro, in qualche caso intervenendo con qualche gustosa aggiunta come la seconda grancassa (senza prezzo nella ripresa del Dies irae).
A conclusione dell’applauditissimo concerto Salonen ha regalato la pubblico scaligero due bis tutt’altro che trascurabili, Le jardin féerique da Ma mere l’oye di Ravel e l’impetuoso Vorspiel del III atto del Lohengrin di Wagner, salutando il miglior concerto della stagione con quello che si spera sia solo un arrivederci.
La recensione si riferisce al concerto del 29 aprile 2022.
Luca Fialdini