Pianoforte | Grigorij Sokolov |
Programma | |
Ludwig van Beethoven | 15 Variationen mit einer Fuge Es-dur über ein eigenes Thema op. 35 |
Johannes Brahms | Drei Intermezzi op. 117 |
Robert Schumann | Kreisleriana. Fantasien op. 16 (1838) |
Da qualche parte sul web è forse ancora rintracciabile il documento video della votazione finale al concorso Čajkovskij del 1966, ovvero l’edizione vinta all’unanimità dall’appena sedicenne Grigorij Sokolov che diventò così il più giovane vincitore della storia del concorso (primato ancora imbattutto).
Ciò che fa più specie nel video è la voce monotona dello scrutinatore designato, che ripete invariabilmente “Sokolov!” ad ogni scheda. E il fatto che una giuria prestigiosa, autorevolmente presieduta dal leggendario Emil Gilels, abbia potuto esprimersi senza riserve a favore di un candidato poco più che ragazzo, è cosa che la dice lunga sull’eccezionalità del nostro Maestro. Nella storia dei concorsi pianistici è raro trovare altrettanta precocità; fra le pochissime eccezioni si può annoverare Friedrich Gulda, anch’egli sedicenne vincitore ma di un altro prestigioso concorso, quello di Ginevra. Adolescenti dalla maturità impressionante, che nel difficile passaggio dalla divina incoscienza della teen age alla consapevolezza della prima gioventù, non sempre hanno saputo gestire al meglio il proprio enorme arsenale di qualità artistiche. Il riferimento è in realtà più a Gulda che a Sokolov, dato che quest’ultimo ha saputo gestire parsimoniosamente la sua carriera, cresciuta lentamente per ragioni estranee alla sua carriera artistica.
Ai giorni nostri Grigorij Sokolov può ormai essere considerato come una sorta di re Mida del pianoforte, nel senso che tutto quello che tocca diventa davvero oro musicale, espressione di un pianismo di qualità sovrumana che a tutt’oggi non trova paragoni adeguati con altri pur eccelsi interpreti della tastiera. Una eccezionalità che, per altri versi, ricorda quella di Arturo Benedetti Michelangeli, ma con la fondamentale differenza che Sokolov ha sempre dimostrato una ampiezza di repertorio e una generosità nel mostrarsi artisticamente che non facevano parte della cifra riservata e ascetica di ABM (e qui in verità il discorso, trascendendo in questioni che attengono all’etica dell’interprete, diventa non affrontabile in questa sede).
Va da sé che il concerto di questa sera, per la Società dei Concerti di Milano, è stato un evento imperdibile, comunque la si pensi sul pianista russo. Rispetto all’ultimo recital (nel 2019, pre-pandemia, con Beethoven e Brahms), il programma è stato più dinamico e forse un filo più accattivante, con grande attesa per le Variazioni op. 35 di Beethoven e le pensosità brahmsiane dell’op. 117 che hanno lasciano il posto nella seconda parte alla visionarietà dello Schumann dei Kreisleriana.
Pare che Sokolov sia un artista estremamente metodico, e lo si può già vedere dalla sua entrata sul palco. Il pianista di San Pietroburgo avanza rapidamente ma senza fretta sul legno della Sala Verdi; camminando disegna una linea curva fino al pianoforte, e durante quei pochi passi sembra quasi nascondere la mano sinistra dietro la giacca, anche se talvolta è visibile un leggero e misterioso movimento rotatorio del polso. Lieve ed essenziale cenno del capo per ringraziare, sbuffo alle code del frac e si parte.
Le “Variazioni Eroica”, lo diciamo subito, sono state applauditissime, e con quella soddisfazione che accompagna il senso di compiutezza, intima coerenza e plasticità delle idee che caratterizza da sempre l’arte di Sokolov. Ma, più che in altre interpretazioni del pianista russo, quest’opera ha rappresentato un significativo banco di prova per provocazioni ermeneutiche tutte da decifrare.
Il basso del tema, sornione, quasi gattesco, ha una regolarità impressionante, pur nello stacco di tempo assai più lento di quanto solitamente si ascolta. Ma quando si arriva al ribattuto, in fortissimo, sentiamo un suono soffocato, come se fosse stato suonato in mezzo forte e con il pedale ad una corda. Perchè? L’essenzialità, la sorpresa, la trivialità intenzionale del tema, trovano il loro apice proprio in quel si bemolle ribattuto con veemenza, reso qui invece come un’allusione ad una percussività lontana, quasi attutita. L’idea resta in parte incomprensibile, non tanto in sé, come deviazione macroscopica dal segno grafico e tuttavia non priva di una certa suggestione. A far pensare è in realtà il fatto che nelle successive variazioni non si è ritrovato un apprezzabile e parallelo “soffocamento” del ribattuto. Rimane, ad avviso di chi scrive, una provocazione poco interessante proprio in quanto isolata.
Più chiara nelle intenzioni è stata invece l’operazione che il pianista ha compiuto per tutto il brano con granitica continuità: l’elisione di una quasiasi pausa o minimo respiro tra una variazione e l’altra. Non si tratta in realtà di una scelta interpretativa del tutto nuova: sempre per scomodare il già citato Friedrich Gulda, esiste un’incisione di quest’ultimo, degli anni ‘80, dell’op. 111 di Beethoven, in cui l’Arietta e le successive variazioni vengono eseguite proprio così, con l’intenzionale eliminazione anche di quei respiri che nella maggior parte delle interpretazioni vengono messi lì ad “aiutare” il trapasso da una variazione all’altra. Il risultato musicale è assai stimolante e come tale si pone come una opzione assolutamente plausibile. Tuttavia la stessa idea, calata nelle esuberanti Variazioni op. 35, non sembra avere la stessa pregnanza ed efficacia. Questa musica, a differenza del viaggio trascendente della sublime ultima sonata beethoveniana, vive di sbalzi umorali e coups de théâtre alimentati, nelle migliori interpretazioni, anche da pause significative, se non talvolta musicalmente necessarie. Stesso discorso, per inciso, avrebbe la medesima valenza anche per un altro capolavoro dell’ultimo Beethoven quale le Diabelli-Variationen, in cui convivono il linguaggio metafisico dell’ “ultimo periodo” con il popolaresco e teatrale svolgersi variato del “rozzo” tema di Anton Diabelli. Invece nell’esecuzione di Sokolov l’idea di dare continuità al discorso musicale non ha avuto ripensamenti, né ha ammesso zone di grigio, lasciando in alcuni frangenti francamente perplessi.
Nel Brahms dell’op. 117 l’approccio del maestro russo ben si è fuso (meglio che con le opp. 118 e 119 suonate nel 2019) con quello che sembra aver da dire in questa raccolta, più breve e meditativa delle altre. La malinconia, il tono crepuscolare che caratterizzano questi brevi pezzi hanno trovato in Sokolov il ricreatore ideale di colori autunnali e atmosfere rarefatte, anche se, specialmente nel n. 3, con un rallentamento dell’eloquio musicale dall’effetto quasi soporifero.
L’esecuzione dei Kreisleriana, infine, ha rappresentato un’occasione, inaspettata a dire il vero, per gustare anche il virtuosismo puro di Sokolov, notoriamente centellinato nei programmi e solo appena un poco appannato dall’età. E’ un virtuosismo, beninteso, tutto di sostanza, fatto di chiarezza nell’articolazione, vigore e definizione quasi didascalica delle figurazioni tecniche, che in Schumann sono a volte anche un po' perverse e non così spesso tarate sulla naturale fisiologia della mano. E’ quello che, con termine abusato ma efficace pur nella sua genericità, si può definire come lavoro “di cesello”. Non pochi pianisti farebbero carte false per cavalcare l’inizio ("Äußerst bewegt") con la stessa precisione mai dissociata dal rigore ritmico che Sokolov ha sfoderato, e che ha fatto dimenticare gli slanci ciechi e confusi che si ascoltano troppo spesso in queste battute. Stesso discorso, con maggiore enfasi ed accresciuta ammirazione, deve farsi anche per il temibile Sehr Rasch, vero e proprio culmine virtuosistico dell’intera opera. Dal punto di vista del messaggio musicale non si può non apprezzare l’approfondimento originale della poetica schumanniana, ottenuto attraverso un rallentamento generalizzato del tempo di esecuzione e l’utilizzo di una vera e propria lente di ingrandimento della partitura, che a volte ha fatto perdere un po’ di vista i contorni del discorso musicale.
Il pubblico della Sala Verdi, come quello di tutto il mondo, era preparato a gustare, come un concerto nel concerto, il mazzetto dei “soliti” sei bis che Sokolov ha offerto con la consueta generosità. Almeno tanto quanto è bastato per apprezzare l’impeto dell’op. 118 n. 3 di Brahms e, sorprendentemente, dei primi accordi del Preludio op. 28 n. 20 di Chopin, il virtuosismo finalmente scoperto e senza compromessi del Preludio op. 23 n. 9 di Rachmaninov e, sempre di Chopin, la Mazurka op. 68. n. 2, in cui Sokolov ha gareggiato idealmente con Michelangeli a chi sa fare il trillo migliore…
Tutti in piedi fino all’ultimo, pochissimi abbandoni prima della fine (guardati quasi con disprezzo), mai stanchezza negli applausi, impossibile ma palpabile speranza di un settimo bis: questo è il consueto copione che da decenni va in scena durante i concerti di Sokolov. Inutile dire che forse non vi è oggi un pianista che susciti nell’uditorio tali entusiasmo e riconoscenza, che costituiscono, forse più di ogni analisi, il segno tangibile di una grandezza artistica unanimemente riconosciuta e costantemente confermata.
La recensione si riferisce al concerto del 25 maggio 2022.
Lorenzo Cannistrà