Tosca | Diana Lamar |
Mario Cavaradossi | Stefano Secco |
Scarpia | Vitaliy Bilyy |
Angelotti/Carceriere | Lorenzo Barbieri |
Spoletta | Davide Scigliano |
Sagrestano/Sciarrone | Alessio Verna |
Pastorello | Sofia Ciuffo |
Direttore | Carlo Palleschi |
Regia | Carlo Antonio De Lucia |
Scene | Daniele Piscopo |
Costumi | Sartoria Pipi |
Video Designer | Matthias Schnabel |
Light designer | Giuseppe Calabrò |
Maestro del coro | Bruno Tirotta |
Maestro del coro di voci bianche | Agnese Carrubba |
Orchestra del Teatro Vittorio Emanuele | |
Coro Lirico "Francesco Cilea" | |
Coro di voci bianche "Bianco suono" |
Tosca debutta finalmente sul palcoscenico del Vittorio Emanuele e si conferma, se ce ne fosse bisogno, come titolo di grande attrattiva nei confronti del pubblico peloritano. Per la verità lo spettacolo era già stato programmato nelle recenti stagioni teatrali del Teatro di Messina non riuscendo però a vedere mai la luce.
Considerando le difficoltà economiche che affliggono perennemente i teatri di tradizione è comunque apprezzabile lo sforzo che è stato fatto inserendo il titolo pucciniano in una stagione votata più alla prosa che alla musica.
Sia pure nell’ambito di una messa in scena che segue le indicazioni del libretto, lo spettacolo si avvale di un interessante video mapping ideato da Matthias Schnabel che agisce sul fondo del palcoscenico. Alle poche suppellettili presenti in palcoscenico, il breve ponteggio con il quadro della Maddalena, lo scrittoio di Scarpia e l’angelo caduto a simboleggiare Castel Sant’Angelo, caratterizzanti le scene di Daniele Piscopo, si aggiungono infatti le proiezioni di drappi scarlatti che si annodano e snodano a seconda delle situazioni e la placida notte punteggiata di stelle dell’atto terzo. Di grande impatto visivo sono poi alcuni tagli di luci scelti da Giuseppe Calabrò, fra tutti la semi oscurità con l’obliqua luce caravaggesca che sottolinea la disperazione di Tosca nello studio di Scarpia.
Alla confezione visiva si accompagna la regia di Carlo Antonio De Lucia che assicura l’aderenza alla vicenda senza particolari guizzi lasciando così che sia l’insieme dei suoni provenienti dalla fossa ad assorbire l’attenzione del pubblico.
D’altronde se gli anglosassoni definiscono Tosca come titolo “for newcomers”, per neofiti, non si può che concordare con questa curiosa espressione. Nel caso specifico il pubblico presente in sala alla prima di cui si riferisce era infatti formato da giovani o per lo più da spettatori non particolarmente avvertiti. Un plauso va quindi rivolto al teatro che ha portato avanti con coraggio questa operazione di avvicinamento alla più dispendiosa e complessa manifestazione di arte performativa quale l’opera lirica scegliendo questo titolo nel catalogo pucciniano.
Passando ad una disamina strettamente legata alla resa musicale si rileva però un passo indietro rispetto all’ultima produzione operistica portata in scena alla fine del 2021. In quella occasione si era trattato del Barbiere di Siviglia e l’orchestra aveva mostrato buone doti di omogeneità e padronanza del linguaggio rossiniano. In questo caso invece si evidenzia ancora una volta quanto impegnativa possa essere la scrittura di Puccini. Si parla spesso di puccinismo o di eccessivo languore larmoyante come pericolo principale ma la Tosca concertata da Carlo Palleschi si attesta su una deriva fin troppo verista fatta di sonorità roboanti e poca attenzione al dettaglio. La lettura risulta così aguzza anche dove non servirebbe. Esempi di ciò li ritroviamo nel temibile crescendo che accompagna l’intimidazione di Scarpia a Tosca culminante con “Dite dov’è Angelotti” che scivola via semplicemente con fragore, oppure nel mattinale dell’atto finale che, invece di sbalzare la romanità della città che pigramente si desta, si limita a precedere l’aria del tenore.
Ci sono altresì momenti felici quali la cantata fuori scena che vede impegnato il coro, qui come nel poderoso "Te deum" di bella compattezza per le cure di Bruno Tirotta, e lo stornello del pastorello intonato da Sofia Ciuffo. Ma l’impressione generale è che Palleschi abbia voluto imprimere un passo cinematografico da film horror sacrificando la ricchezza della partitura.
Nel ruolo del titolo Diana Lamar ha sfoderato un buon controllo del fiato e centri robusti, ma di certo per la giovane età ha ancora un lungo cammino da percorrere per governare il ruolo. L’organizzazione vocale è infatti tutta da scoprire ma di sicuro studio e pazienza nel costruire la carriera le consentiranno di sfruttare appieno le indubbie doti che sembra avere. Resta il ricordo di un buon “Vissi d’arte” e di un duetto finale cantato con la giusta espressività.
Al suo fianco Stefano Secco offre i momenti migliori nel canto di conversazione ma la linea è frammentata e la salita all’acuto si dimostra perigliosa sin da “Recondita armonia”. Manca inoltre di forza percussiva nell’atto secondo quando dovrebbero esplodere i due “Vittoria” che tutti aspettano. Resta il fraseggio che ha buoni chiaroscuri in “O dolci mani” ma la prova è nel complesso opaca.
Vitaliy Bilyy tratteggia Scarpia da brutale prevaricatore ma, nonostante il timbro pieno accompagnato da buon tonnellaggio risulta schiacciato nella lotta impari con un’orchestra tonitruante nel te deum. L’ingresso del Barone è poi poco autorevole. “Un tal baccano in chiesa” dovrebbe infatti essere il manifesto della personalità deviata mentre qui non è sufficientemente pregnante.
Completano il cast Lorenzo Barbieri, Angelotti di bella pasta vocale oltre che carceriere nell’atto finale, Davide Scigliano insinuante Spoletta e Alessio Verna che dà vita al Sagrestano e a Sciarrone.
Ciò che resta della serata è soprattutto l’accoglienza festante del pubblico nella speranza che il Vittorio Emanuele proponga ancora musica operistica consentendo così all’orchestra di ritrovarsi a suonare più spesso aumentandone l’affiatamento.
La recensione si riferisce alla prima del 3 Marzo 2023.
Caterina De Simone