Marta | Nadia Stefanoff |
Lisa | Jennifer Maines |
Walter | Roman Payer |
Tadeusz | Alec Avedissian |
Katja | Susanne Langbein |
Krystina | Irina Maltseva |
Vlasta | Zsófia Mózer |
Hannah | Fotini Athanasaki |
Yvette | Annina Wachter |
Una vecchia | Susanna von der Burg |
Bronka | Abongile Fumba |
Tre SS | Oliver Sailer (bs) Valentin Vatev (bs) Michael Gann (t) |
Un vecchio passeggero | Jannis Dervenis |
Capo sorvegliante | Ulrike Lasta |
Kapo | Rosmarie Reitmeir |
Steward | Andrea De Majo |
Direttore | Tommaso Turchetta |
Regia | Johannes Reitmeier |
Scene | Thomas Dörfler |
Costumi | Michael D. Zimmermann |
Luci | Ralph Kopp |
Drammaturgia | Johanna Muschong |
Maestro dei cori | Michel Roberge |
Tiroler Symphonieorchester Innsbruck | |
Chor und Extrachor des Tiroler Landestheaters |
L’insolito e il perturbante nella storia di quest’opera cominciano già dal modo d’indicarne l’autore: Moisej Samuilovič Vajnberg (russo, come alla sua scomparsa), o Moishe Weinberg (yiddish, come nell’ambiente teatrale ebraico di Varsavia degli anni Trenta), o Mojsze Wajnberg (polacco, come alla nascita), e altri ancora. La forma oggi piú frequente nei repertori di notizie e sulle copertine dei CD risulta essere Mieczysław Weinberg, con il nome di persona ricostruito dal diminutivo Mietek usato in famiglia e tra amici.
Il compositore venne al mondo a Varsavia, presumibilmente nel gennaio del 1919. Suo padre s’era trasferito da Chișinău, oggi capitale della Moldavia, e sua madre da Odessa; entrambi lavoravano nel teatro yiddish, lui come compositore e Kapellmeister, lei come attrice. E in teatro Mietek fu pianista dall’età di dieci anni, ma seguì anche regolari studi al conservatorio con Józef Turczyński, allievo di Busoni e curatore dell’edizione chopiniana allora di riferimento. Si diplomò subito prima dell’aggressione nazista, alla quale sopravvisse, unico della sua famiglia, fuggendo a piedi nel settembre del 1939 verso l’Unione Sovietica. Ammesso al conservatorio di Minsk, studiò composizione con Vasilij Zolotarëv, un maestro d’origine greca allievo di Balakirev e Rimskij-Korsakov. Anche qui la guerra lo colse immediatamente dopo il diploma: nel giugno del 1941 fuggì a Taškent, dove si sposò con la figlia d’un celebre attore ebreo-russo. Šostakovič, maggiore di tredici anni, ricevette la partitura delle sua Prima sinfonia e fu determinante per il futuro del collega: nel 1943 ne “raccomandò” il trasferimento a Mosca, e divennero vicini di casa. L’ondata ždanoviana del 1948 colpì la musica d'entrambi, ma per Weinberg pericoli ben più grandi furono la caduta in disgrazia del suocero, che finì assassinato in un finto incidente stradale, e del cugino di lui, coinvolto nel paranoico “complotto dei medici ebrei”. Il nostro compositore fu arrestato nel febbraio 1953, ma la scomparsa di Stalin ai primi del mese successivo evitò il peggio. Sembra che Šostakovič si fosse molto esposto in suo favore anche in questa rischiosissima circostanza.
Autore molto prolifico nelle forme musicali più “nobili”, Weinberg dovette però trarre il suo sostentamento dalle colonne sonore per film. Ne scrisse una sessantina in quarant’anni, inclusa quella per il celebre Quando volano le cicogne, Palma d’Oro a Cannes nel 1958. A partire più o meno da questa data, anche i suoi lavori sinfonici e da camera ebbero una certa circolazione nella patria adottiva e in quella d’origine. L’amicizia e la reciproca stima con Šostakovič furono profonde e durature, al punto che i due discutevano insieme le proprie composizioni prima di mostrarle ad altri. Al loro vicinato di casa dovetti, accidentalmente, la mia prima conoscenza del nome di Weinberg: eccellenti pianisti entrambi, a metà degli anni Cinquanta registrarono insieme, su quello che suona come un pianoforte domestico, la versione d’autore a quattro mani della Decima Sinfonia di Dmitrij Dmitrievič. Il pezzo fu compreso in uno strano CD francese intitolato Chostakovitch par lui même, di durata doppia perché monoaurale. Quando, non tanti anni fa, m’imbattei per la prima volta nell’esecuzione dal vivo d’un pezzo da camera di Weinberg alla Philharmonie di Berlino, la qualità della musica ascoltata fece riemergere dalla memoria il nome dell’esecutore e destò il mio interesse per la sua opera.
Gli anni del cosiddetto “disgelo” crusciofiano portarono anche comunicazioni meno difficili tra Est e Ovest d’Europa. Nel 1959 fu ripristinata la linea aerea diretta tra Varsavia e Parigi; Zofia Posmysz (pron. Sofia Pòsmisc’), redattrice della radio polacca sopravvissuta ad Auschwitz-Birkenau dove era stata deportata diciottenne nel 1942 come prigioniera politica, fu inviata nella capitale francese per un servizio sul nuovo collegamento. “Dopo l’atterraggio – raccontò in séguito – avevo un paio d’ore libere e corsi subito in Place de la Concorde, dove c’erano molti turisti tra i quali un gruppo tedesco. Improvvisamente sentii una voce femminile. Mi voltai spaventata: era la voce della mia sorvegliante Franz, una voce acuta, tagliente. Non era lei, ma la somiglianza delle voci era stupefacente. Non potevo dominare l’agitazione. Tornata a casa, ne parlai con mio marito: Che cosa avrei fatto se fosse stata lei? Sarei andata da un poliziotto oppure mi sarei avvicinata per chiederle come si sentiva? Non so uscirne. Mio marito mi disse: Scrivi qualcosa.”. Nacquero così un radiodramma, La passeggera della cabina 45, e poi uno sceneggiato per la televisione polacca, che lo trasmise nel 1960 con eco molto favorevole. Il regista, Andrzej Munk, propose alla Posmysz una versione destinata al cinema e le suggerì di scrivere un racconto dal quale ricavare il copione. Così avvenne, ma quando le riprese erano quasi complete, Munk perì in un incidente d’auto e il progetto sembrò arenarsi. Solo un paio d’anni dopo il materiale disponibile fu “montato” con foto di scena e un commento fuori campo, ottenendo quello che la prudente Treccani definisce “uno dei film concentrazionari più compatti e riusciti del cinema mondiale”. La voce acuta e tagliente di Parigi non sarebbe comunque potuta appartenere alla sorvegliante Anneliese Franz perché costei era già morta tre anni prima per emorragia cerebrale: vano fu quindi l’ordine di cattura emesso a suo carico nel 1960 dal tribunale di Francoforte in preparazione del cosiddetto “processo di Auschwitz”.
Nel 1962 la scrittrice aveva pubblicato il suo testo, in cui la situazione narrativa è capovolta rispetto all’esperienza vissuta: la persecutrice, rifattasi una vita, crede di riconoscere l’ex-prigioniera in una passeggera del transatlantico che la sta portando in Brasile, e si convince d’esserne stata a sua volta riconosciuta. Šostakovič lesse il libro e lo passò ad Alexandr Medvedev, direttore del Dipartimento Letterario al Bol’šoj Teatr di Mosca. Questi interessò a sua volta Weinberg e si mise in contatto con la Posmysz, che non pose ostacoli alla rielaborazione del suo romanzo in libretto. L’argomento convinse il compositore ebreo-polacco, ormai quasi cinquantenne, ad affrontare per la prima volta con piena responsabilità il genere operistico a cui s’era avvicinato solo per un lavoro collettivo nel periodo di Taškent. Il rapporto con Medvedev si rivelò felice e Weinberg collaborerà di nuovo con lui in tre delle sei opere scritte in séguito, fino al monumentale e conclusivo Idiot da Dostoevskij. Nel 1968 l’opera Passažirka era compiuta e ne cominciarono le prove al Bol’šoj.
Il lavoro, però, non riuscì gradito a qualcuno che aveva il potere d’impedirne la rappresentazione; lo spettacolo fu rinviato sine die per un presunto “astratto umanitarismo” reputato non conciliabile con i criteri estetici allora vigenti in Unione Sovietica. Dopo anni, lo spartito per canto e pianoforte dell’opera fu pubblicato on una prefazione molto elogiativa di Šostakovič datata 1974, ma si dovette attendere fino al 25 dicembre 2006 per la prima esecuzione pubblica, che ebbe luogo a Mosca in forma d’oratorio. Nel 2010 seguì finalmente la prima messinscena al Festival austriaco di Bregenz, per opera d’un direttore allora “emergente”, Theodor Currentzis, e d’un regista celebre, David Pountney. Era presente Zofia Posmysz, ottantaseienne. Questa produzione fu ripresa a Varsavia, Londra e in quattro sedi statunitensi. Parallelamente s’ebbero numerosi allestimenti in Germania e uno nella lontana Ekaterinburg, che fu poi ospitato al Bol’šoj. Anche il teatro Novaja Opera di Mosca rappresentò Passažirka, che nell’autunno del 2020 ritornò in Austria inaugurando la stagione a Graz.
Il testo di Medvedev musicato da Weinberg era integralmente in russo. Per la creazione scenica del 2010 a Bregenz “fu realizzata una versione multilingue del libretto, nella quale i personaggi di diverse nazionalità cantano nella loro lingua madre” o nel tedesco imposto dagli sgherri di Auschwitz. Questa versione è divenuta d’uso generale (mi sembra logico escludere, però, i due spettacoli realizzati in Russia). Nel corso della rappresentazione, a fianco del tedesco prevalente, s’ascoltano quindi tratti più o meno lunghi in polacco, yiddish, cèco, russo e francese. In questo modo risulta significativamente sottolineata l’internazionalità della tragedia. Poiché fuori della Russia non si conosce la versione originale dell’opera, nessuno si sogna di protestare, come va oggi di moda contro le traduzioni dei libretti.
Passažirka, ovvero Die Passagierin, comprende due ore e mezza di musica divisa dall’autore in due atti d’uguale lunghezza, articolati in otto scene con un epilogo. La prima e la penultima si svolgono nel transatlantico che, alla fine degli anni Novecentocinquanta sta portando l’ex-sorvegliante Lisa (mezzosoprano) e suo marito Walter (tenore) in Brasile, dove questi, diplomatico della rinata e rispettabile Germania federale, ha la sua nuova sede. La presenza d’una passeggera ignota inquieta Lisa al punto che svela “tutto” al consorte, tenuto finora all’oscuro del suo passato di SS e di colpo preoccupatissimo per la propria carriera, tratto poco simpatico che alla fine gli sarà rinfacciato dalla stessa moglie. Lisa è convinta d’avere incontrato Marta, una prigioniera che aveva dapprima protetto (“per farne la propria suddita”, aggiunge), ma poi spedita per punizione al “blocco della morte”, dal quale non era pensabile uscisse viva. Solo apparentemente la tranquillizza che uno steward prezzolato informi che la misteriosa passeggera è di nazionalità inglese.
Un coro fuori scena nega che la donna abbia raccontato proprio “tutto” al marito. Sopraffatta dall’angoscia Lisa rivive la sua presenza in Auschwitz. Le cinque scene successive, divise dall’intervallo, sono un flash-back sul rapporto diseguale tra Lisa e Marta nel campo di concentramento. Lo introduce, evidente omaggio drammaturgico al Puccini di Turandot, un grottesco colloquio di tre SS intenti a farsi lucidare gli stivali, con il primo (basso) che si lamenta della noiosa vita del campo “senza club e senza ragazze”, un altro (basso) che loda i vantaggi del poter sparare impunemente a chiunque senza alcun rischio di beccarsi pallottole, e il terzo (tenore) che critica l’inefficienza della “macchina della morte”: con “solo” ventimila cadaveri al giorno non si concluderà mai nulla, ce ne vorrebbero un buon milione. Un elogio alla bellezza di Lisa “sprecata dentro un’uniforme”, sia pure quella delle SS, conclude questo “siparietto”.
Segue l’entrata della prima donna (soprano) e l’inizio del confronto con Lisa nelle sue mansioni di SS. La terza scena è centrata sull’arrivo di nuove prigioniere e ha due poli, uno all’inizio con la preghiera cristiana di Bronka (contralto) e uno alla fine, con la falsa traduzione fatta da Marta d’un foglietto trovato addosso alla russa Katja (soprano), spinta brutalmente in scena a pedate dai tre SS. Nell’episodio è notevole anche la presenza d’una stralunata Vecchia, quasi un fool scespiriano.
Le prime scene del secondo atto introducono la vicenda personale di Marta e del suo fidanzato Tadeusz (baritono), separati da due anni nel campo. Lisa tollera l’incontro e poi cerca d’ottenere la complicità di Tadeusz, sdegnosamente rifiutata. Il tentativo di sopravvivere, perlomeno spiritualmente, alle condizioni inumane del campo di sterminio è il nucleo della scena successiva, con le prigioniere che offrono, surrealisticamente, fiori augurali a Marta per suo il compleanno. La francese Yvette tenta d’insegnare i rudimenti della propria lingua a Bronka e Katja canta uno struggente assolo a cappella. Il brutale irrompere delle SS per la selezione di chi inviare a morte immediata chiude questa parentesi d’illusione. Mentre svolgono il loro macabro ruolo, gli sgherri raccontano che il comandante del campo, “un grande conoscitore di musica”, ha chiesto di trovare tra i prigionieri un violinista che gli suoni il suo valzerino preferito. Il prescelto è Tadeusz. Marta si ribella al comportamento infantile e offensivo della sorvegliante, ma invece d’essere uccisa per le spicce è condannata all’attesa della fine inevitabile di chi entra nel “blocco della morte”. Senza dubbio appare incredibile che una prigioniera di Auschwitz non fosse immediatamente “liquidata” dopo aver buttato a terra una soldatessa delle SS, ma la storia dell’opera è ricca d’incoerenze del genere, dal mite esilio a Drusilla trovata armi in pugno ai danni di Poppea fino alla temporanea “promozione” di Posa dopo il colloquio con Filippo.
La settima scena ci riporta sulla nave: Lisa tenta di dimenticare il passato e cede finalmente alle insistenze di Walter perché lo segua nel salone da ballo. Lo steward ritorna e si corregge precisando che la passeggera misteriosa ha sì passaporto inglese, ma legge libri in polacco, ed è stata lei a chiedere che fosse eseguito proprio il valzerino preferito del comandante. Lisa è travolta e rivive l’episodio che portò alla morte di Tadeusz. In una scena senza parole di straordinaria efficacia drammatica, questi, imbracciato il violino, invece della demenziale musichetta attacca sicuro la Ciaccona di Bach, uno dei simboli del contributo tedesco alla storia dell’umanità, e in un crescendo di stupore, imbarazzo e fastidio degli astanti è trascinato via mentre l’orchestra s’impadronisce perentoria delle frasi impedite al violino solo. Per chiarire il significato di questa scena a qualche spettatore potenzialmente ignaro, il programma di sala ricorda l’osservazione di Primo Levi sulle marcette e canzoni volgari che ritmavano le giornate nel campo integrandosi ossessivamente nella memoria dei pochi sopravvissuti.
Lo spettacolo si conclude in modo simmetrico all’inizio: durante il preludio strumentale s’era vista Marta sola sulla prua della nave. Nella stessa posizione, ma ora sopra la nebbia che si leva dal fiume del suo luogo natale (come indica il libretto), la donna ricorda Tadeusz e le sue compagne assassinate: tradotta in tedesco, la celebre frase di Paul Éluard, Si l'écho de leurs voix faiblit, nous périrons, suggella l’opera e ne esprime il significato.
Lo scenografo Thomas Dörfler, notissimo In Germania, Austria e Svizzera, ha realizzato “uno spazio scenico mutevole intrecciando i diversi luoghi dell’azione invece di spazi distinti da smontare e rimontare”. Partendo da questo concetto e sfruttando nel modo migliore il palcoscenico girevole del Tiroler Landestheater, i tavolacci sovrapposti dei dormitori e la torre del forno crematorio, che caratterizzano Auschwitz nell’immaginario collettivo, sono anche, senza forzatura, il fumaiolo della nave e la struttura a ponti di essa, con la “cabina che s’apre dietro un’ampia ribalta come quella delle navi-traghetto”. Nel suo insieme l’impianto scenico ha una struttura di prisma triangolare, con uno spazio interno che, collegato al sottopalco, consente la rapida comparsa di figuranti e cantanti senza che il pubblico li noti anzitempo. La parte del palcoscenico che contorna la “nave” allude sia al mare, sia alla desolazione del terreno del campo coperto dalle misere valigie dei prigionieri (lo direi uno dei pochi casi in cui questo topos ricorrente nelle messinscene degli ultimi trent’anni appaia pienamente giustificato).
In questo capolavoro di scenografia s’inserisce perfettamente la regia di Johannes Reitmeier, la cui collaborazione con Dörfler nel 2019 per Liliom di Johanna Doderer fu meritatamente onorata da un doppio Österreichischer Musiktheaterpreis. In una conversazione con il regista pubblicata nel programma di sala si ricorda che all’autrice del romanzo fu obiettata la presentazione presunta troppo positiva della sorvegliante. Reitmeier osserva che, sia per la Posmysz, sia per Weinberg, Lisa è una figura molto ambigua tra capacità di compiere azioni disumane, manipolazione subita e tendenza ad autogiustificarsi. Non risulta mai in modo definitivo che la passeggera sconosciuta sia effettivamente Marta, e la regia non presenta l’incontro delle due donne come “esclusivamente reale, ma come una situazione da incubo” che spinge Lisa alle soglie della follia. D’altra parte, se consideriamo l’origine autobiografica del romanzo, è logico che la figura di Marta appaia ben più “forte” della sua antagonista. La regia sfrutta molto bene le caratteristiche personali delle due interpreti; nelle scene che si svolgono nel campo Lisa appare sempre come sottilmente impacciata, quasi timorosa di non obbedire bene a chi le dà ordini, contro una Marta quasi ieratica nella coscienza della propria superiorità morale. Reitmeier è efficacissimo, da un lato, nel rendere il senso d’irrealtà delle scene che si svolgono sul transatlantico; dall’altro non appesantisce con dettagli d’orrore le scene nel campo. Questi avrebbero probabilmente cozzato contro l’invenzione musicale di Weinberg, che privilegia la permanenza fino all’ultimo della coscienza umana nelle vittime rispetto a un’enfatizzazione esteriore della violenza, destinata comunque a restare vana a fronte dell’incommensurabilità di questa. L’allusione continua al disumano è sufficiente per creare, insieme alla musica, una tensione negli spettatori che a tratti riesce quasi insostenibile. Essa nasce, mi è parso, più da pietà per i “sommersi” (come i familiari di Weinberg) che da orrore per gli aguzzini. Già Šostakovič osservò che “proprio la musica decide l’esito del duello spirituale della sorvegliante Lisa con Marta e Tadeusz, un duello che Lisa perde”. Per Reitmeier, Die Passagierin è stata l’ultima fatica registica come Intendant del Tiroler Landestheater: vi ha dimostrato ancora una volta la sua abilità non solo nel concepire l’insieme, ma nell’ottenere da attori e attrici gestualità e mimica sobrie e convincenti. La drammaturgia è firmata da Johanna Muschong, e sulla scena tutto riesce appropriato; ma, trattandosi di un’opera di cui non conosco né le indicazioni del libretto, né la breve “tradizione esecutiva”, non sono in grado di valutare il suo contributo.
Ai meriti dello scenografo e del regista s’aggiungono quelli dell’espertissimo Michael D. Zimmermann, presenza quasi fissa nelle locandine del Tiroler Landestheater, che ha disegnato da par suo i costumi di questo spettacolo attenendosi ai tempi delle due vicende; e di Ralph Kopp, che ha curato le luci con espressiva ricchezza d’effetti e superando i problemi posti dall’insolito impianto di Thomas Dörfler.
Intenzionalmente, non avevo sentito una sola battuta di quest’opera prima d’entrare in teatro lo scorso 21 maggio. Weinberg sa fondere contributi musicali di diversa provenienza nel crogiuolo della propria maestria compositiva. Nonostante la sua lunga frequentazione quotidiana con Dmitrij Šostakovič, sarebbe impossibile attribuire a questo un’influenza stilistica dominante sull’amico. Senza dubbio, l’uso della cosiddetta “tonalità allargata” insieme con procedimenti riconducibili al modello schönberghiano sono comuni ai due compositori, ma condivido l’opinione del critico tedesco Markus Thiel, per il quale “l’espressionismo doloroso e selvaggio” dell’uno è estraneo “all’introspezione e alla stilizzazione anche del frammentario” che distinguono l’altro. Volendo proprio fare un nome, direi che la conduzione delle voci femminili negli insiemi mi ha ricordato più volte il Britten di Peter Grimes; ma il risultato è irriducibile a qualsiasi modello. E l’opera, così come è stata eseguita a Innsbruck, non ha mostrato un momento di stanchezza.
Non inferiori, infatti, ai pregi visivi di questa produzione sono quelli musicali. Tommaso Turchetta, napoletano di nascita, formatosi in Italia e perfezionatosi in direzione d’orchestra a Vienna, è entrato quattr’anni fa nell’ensemble del TLT, divenendone Erster Kapellmeister nella stagione 2020-21. Se non vado errato, è questo il primo grande spettacolo che cura come titolare del podio (l’anno scorso avrebbe dovuto dirigere un Boris Godunov rinviato per l’epidemia). Il giovane maestro ha confermato l’ottima impressione avuta sentendolo dirigere qualche replica. Evidente è la confidenza reciproca che lo lega al Tiroler Symphonieorchester Innsbruck, impeccabile sia alla prémière del 21, sia alla seconda rappresentazione del 29 maggio. La scelta dei tempi esecutivi è sempre riuscita molto naturale, con differenze pressoché trascurabili tra le due serate. Come è prevedibile per un titolo di fatto sconosciuto, la seconda rappresentazione è apparsa più fluida e omogenea, ma questo non significa che alla prima avessi notato manchevolezze. L’orchestrazione originale di Weinberg, destinata a un ambiente come quello del Bol’šoj Teatr di Mosca, prevede i legni a tre, sei corni e altri dieci ottoni, tre percussionisti oltre al timpanista, pianoforte, celesta, chitarra e un comparto d’archi in proporzione. A tutto questo s’aggiunge un complessino sul palcoscenico. Riprendendo una tradizione ormai consolidata sia per le opere di Puccini sia per il Wozzeck, il compositore statunitense Henry Koch ha approntato una versione strumentale più consona a teatri di dimensioni più modeste, incompatibili con una massa orchestrale così ampia. Anche questa produzione della Passagierin l’ha utilizzata; ripeto che non ho elementi di confronto ma, diversamente da quel che mi succede talvolta, non ho percepito carenze timbriche o dinamiche.
Nel ruolo del titolo ha brillato Nadja Stefanoff. Il soprano di Chemnitz, formatosi a Dresda, mi ha colpito sia per la bellezza dello strumento vocale, sia per la tecnica molto sicura, sia per la potenza espressiva, doti che già avevo molto ammirato ascoltandola come Sieglinde a Kassel tre anni fa.
Coprotagonista nei panni di Lisa è stata Jennifer Maines, beniamina del pubblico del TLT nel cui ensemble ha cantato dal 2003 al 2016 ben sessantacinque parti sia di soprano drammatico, sia, come in questo caso, di mezzosoprano, inclusi ruoli di primo prestigio. La cantante canadese ha retto alla pari il confronto con la Stefanoff e molto opportunamente le due sono uscite insieme dal sipario appena richiuso alla fine dello spettacolo. Come ho già osservato per le loro capacità di attrici, anche le qualità vocali hanno trovato un’applicazione ideale nei due personaggi, così diversi ma d’impegno equivalente.
Il tenore viennese Roman Payer ha cantato, interpretato e rappresentato con splendida sicurezza il personaggio di Walter; nel corso delle repliche sarà sostituito da Florian Stern, dell’ensemble del TLT. A questo appartiene anche Alec Avedissian, che nel ruolo di Tadeusz ha mostrato di possedere bene le corde del lirismo e dell’introspezione, insieme a quelle di spavalderia e brutalità che avevo ammirato sentendolo anni addietro, tra altri, nei ruoli di don Giovanni e del vilain Ficsur in Liliom.
A fianco dei quattro interpreti principali, Die Passagierin richiede un gruppo di cantanti bene individuate e affiatate nei sette ruoli delle prigioniere. Tra esse spicca, come ho accennato, Katja, partigiana russa che nel secondo atto canta, senza supporto strumentale, una canzone di nostalgia sul sole d’inverno, “Valle, mia piccola valle”. La parte è stata resa con sicurezza e intensità mozzafiato da Susanne Langbein, un’altra “ex” del TLT dove ritorna con una certa regolarità (negli ultimi anni come Martha, donna Anna, Agathe e Pamina). Susanne von der Burg, veterana dell’ensemble di cui fa parte dal 1999, ha dato il suo peso vocale e il suo prestigio al personaggio della Vecchia un po’ folle. Abongile Fumba ha cantato con grande dolcezza la preghiera di Bronka, e ben più che corrette sono state anche Irina Maltseva (Krystina), Zsófia Mózer (Vlasta), Fotini Athanasaki (Hannah) e Annina Wachter (Yvette). I tre SS sono stati, con bravura, i bassi Oliver Sailer e Valentin Vatev e il tenore Michael Gann. Le poche ma esposte battute del Passeggero della nave che chiede a Walter di ballare con Lisa sono state cantate da Jannis Dervenis. Per la maggior parte, questi cantanti appartengono al Chor des Tiroler Landestheaters, affiancato in questa produzione dall’Extrachor e preparato come sempre dal maestro titolare Michel Roberge. Andrea De Majo (Steward), Ulrike Lasta (SS Capo-sorvegliante) e Rosmarie Reitmeir (Kapo) hanno completato il cast per questi ruoli parlati.
L’applauso vibrante e prolungato che dopo la prima ha festeggiato i curatori e gl’interpreti dello spettacolo, senza dubbio uno dei più interessanti e riusciti che ho visto a Innsbruck, s’è ripetuto altrettanto vivo alla replica della settimana successiva.
Die Passagierin è in locandina fin quasi a metà luglio, per un totale di dieci recite. Chi può, non la perda.
La recensione si riferisce alla prémière del 21 e alla replica del 29 maggio 2002.
Vittorio Mascherpa