Otello | Carlo Cossutta |
Desdemona | Margaret Price |
Jago | Gabriel Bacquier |
Cassio | Petr Dvorský |
Emilia | Jane Berbié |
Lodovico | Kurt Moll |
Montano | Stafford Dean |
Roderigo | Kurt Equiluz |
Un Araldo | Hans Helm |
Wiener Sängerknaben |
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Wiener Staatsopernchor |
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Maestro dei Cori | Norbert Balatsch |
Wiener Philharmoniker |
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Direttore Sir Georg Solti |
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Edizione | 2 Cd Add Decca 460 756-2 |
Avvicinandosi al gigantesco capolavoro verdiano per quella che resterà l’unica incisione in studio (1977), Solti non poteva non avere presenti gli illustri precedenti e, da par suo, quel che fa emergere con prepotenza dal documento discografico è, non a caso, la volontà di rottura col passato, anche recente. Abbandonati i sentieri tracciati da vellutati magmi ardenti, prorompente spettacolarità e magniloquenza tardo-romantica (e, se si vuole, tradizionalmente wagneriana), sir Georg propone una lettura del dramma che ha il suo punto di forza nella generale eleganza (sottigliezza) e nella rarefazione di atmosfere e personaggi, e che sembra voler riafferrare l’innegabile scaturigine decadentistica dell’opera. Il direttore cesella ogni segno della partitura con cura straordinaria, cercando e trovando, magistralmente assecondato dai filarmonici viennesi, un più che plausibile ritmo narrativo (di preziosa elasticità agogica, oltre che dinamica, con continui sapienti accelerazioni e allargamenti), dimostrando di comprendere e possedere sia la complessità psicologica dell’ultimo titolo tragico verdiano, sia il goût al passo coi tempi di Boito e Verdi (un approccio, a dirla tutta, simile, ed è significativo, a quello che caratterizza l’incisione dell’integrale delle sinfonie mahleriane, intrapresa proprio negli anni settanta). I momenti più scoperti sono resi con attento vigore impressionistico, con lucidi e smaltati bagliori (si noti, peraltro, che gli ottoni conservano la fibra adamantina tipica del direttore magiaro, senza però essere ustionanti) e con generose ondate di vitalità (che ricordano la pittura francese del periodo, come il florealissimo e delizioso coro nel giardino al secondo atto), mentre quelli intimi e introspettivi sono avvolti (debolmente, senza pressioni) da un suono materico ma estremamente effimero, d’una dolcezza ambigua, tra mille caleidoscopiche trasparenze di enorme suggestione, ma anche ansiogene e morbidamente morbose (si ascoltino, in particolare, il duetto Otello-Desdemona che chiude il primo atto, fresco eppure sinuosamente fremente, e la canzone e la preghiera del quarto, leggerissime e cupamente inquiete, con superba prova degli archi e, in specie, dei violoncelli). In queste spirali di orientaleggianti fumi setosi, a volte anche oppiacei, l’unico carattere della tragedia che s’inserisce perfettamente, sublimato e meravigliosamente stilnovistico, è la Desdemona di Margaret Price, che canta divinamente (con tecnica sopraffina) e interpreta con attenta partecipazione e intelligente equilibrio, quasi levitando nella liquida grazia della sua voce (e torna alla mente quel che Verdi pensava di questa figura: un simbolo, né più né meno che un simbolo, del Bene). A buona distanza si pone l’Otello, scuro di voce prima che di pelle, credibile e mai belluino, dell’equilibrato Carlo Cossutta, che ignora le infinite pieghe psicologiche del suo carattere e risolve il tutto con una convenzionale teatrale correttezza che, se non spiace, lascia comunque insoddisfatti (cosa ordinaria, peraltro, per questo ruolo). Nota dolente è lo Jago di Gabriel Bacquier che, perennemente affaticato nel registro acuto (assolutamente inascoltabile), fa di tutto per rendere il personaggio come non dev’essere, facendone un essere scopertamente viscido, plebeo (in senso deteriore), volgarotto, rudemente mefistofelico, caricaturale; il peggio è che risulta talmente poco credibile e stonato rispetto al contesto da vanificare buona parte dell’impresa soltiana: basta che apra bocca e si può dire addio a nuances, ricercatezza, atmosfere, tutti pregi da riafferrare – con immaginabile fatica – concentrandosi sul miracoloso suono orchestrale e cercando di dimenticare questo autentico strazio. Adeguati i comprimari (pur colle solite – inevitabili? – storpiature di taluni incorreggibili anglofoni), con un cenno obbligatorio per il mirabile Lodovico di Kurt Moll.
Emanuele d'Angelo