Milano - Ho avuto l'estremo piacere di incontrare il M° Nucci nel camerino degli Arcimboldi pochi istanti prima dell'inizio della recita di Gianni Schicchi. Nonostante l'impegno che lo attendeva da lì a pochi minuti, con grande calma e estrema cortesia, ha acconsentito a rispondere alle domande che gli ho posto, esprimendosi con tono piacevolmente colloquiale su argomenti, a mio avviso, particolarmente interessanti.
Quando il canto ha cominciato a far parte della sua vita e qual è stato il fattore che ha contribuito maggiormente nella sua scelta?
Il canto è sempre stato parte della mia vita dato che in casa mia, da buoni emiliani, cantavano tutti. Il mio babbo cantava in un coro e suonava nella banda. Io ho iniziato a suonare nella banda a nove anni e alle medie, nell’intervallo delle lezioni giocavamo a “Lascia o raddoppia” il quiz televisivo che andava per la maggiore in quegli anni, e sistematicamente io mi presentavo sull’Opera. Da bimbo a casa mia non c’era la televisione ma avevamo la radio, ed ogni lunedì ascoltavamo tutti insieme i famosi “Concerti Martini e Rossi”. Ogni tanto i miei genitori mi portavano al cinema a vedere i film di Carmine Gallone (fra cui molti con Tito Gobbi), e in seguito i film con Mario Lanza. Insomma, ho sempre vissuto la musica con molta naturalezza e mai con lo scopo di far carriera.
Considerando il suo carattere, qual è l’elemento della sua professione che le costa maggiore sacrificio?
Onestamente, una libertà individuale legata ai miei hobby che mi manca. Io ho sempre la testa fra le nuvole, mi sento un bambino di 62 anni che continua a giocare in tante cose. Ecco, la cosa che mi manca è il tempo da poter dedicare alle mie passioni. Però è un sacrificio che si compensa con il fatto che il mio lavoro per me è anche un hobby… non essendo un carrierista riesco a vivere il mio lavoro con passione. Giusto per rendere l’idea, ho smesso di studiare oggi alle 18,30 perché sto preparando Vespri Siciliani e devo sfruttare ogni ritaglio di tempo per potermi preparare adeguatamente.
Come ricorda il suo periodo di permanenza nel coro scaligero?
Io avevo già cantato come solista e l’ultima cosa che feci prima di entrare nel coro fu Dancairo in una famosa Carmen all’Opera di Roma, con Grace Bumbry, Richard Tucker e le scene di Guttuso… subito dopo entrai nel coro e fu uno dei momenti più belli; lì conobbi mia moglie e poi il famoso M° Bizzarri il quale mi disse: “ma perché non prosegui la carriera” ed io “ma no Maestro, ci sono tante voci in giro”; ma lui con pazienza riuscì a convincermi e così per divertirci, tutti i giorni negli intervalli del coro, andavamo da Pallotti (noleggio pianoforti) ci procuravamo un pianoforte e studiavamo.
La sua carriera è costellata di successi ottenuti in tutti i più grandi teatri del mondo. Quali sono secondo lei le ragioni principali di tanto successo?
E’ difficile rispondere a questa domanda. Io sono sempre stato uno sportivo attivo. Per esempio, sono un grande appassionato di ciclismo tanto da fare in bicicletta tutti i passi dolomitici durante il Rigoletto di tre anni fa. Quindi, come sportivo, sono un amante dei record. Che sappia io nella storia, non ci sono mai stati baritoni che hanno cantato Rigoletto e Barbiere in tutti i più importanti teatri del mondo: solo il sottoscritto. Certo, se pensiamo che grandi nomi italiani non hanno mai cantato al Met o anche nomi più recenti vi hanno cantato solo tre recite, mentre a me dopo 26 anni ancora quest’anno hanno offerto per il prossimo dicembre una nuova produzione dei Vespri Siciliani. Se penso a cosa mi è successo nell’anno verdiano alla Scala, ma non solo… ho cantato di tutto dappertutto! Mi rendo conto che queste sono solo considerazioni ma la realtà è che non conosco i motivi di tutto ciò; forse perché non ho mai pensato alla carriera, ho sempre pensato solo a studiare e… forse lassù qualcuno mi ama!
Leo Nucci si considera, più baritono brillante o più baritono verdiano ?
E’ un argomento che non mi è mai interessato. Io canto quello che mi danno da cantare, SE MI PIACE. Se non mi piace non c’è nessuno che riesce a convincermi… e questa è la ragione per cui non ho mai cantato alcuni ruoli.
Tra l’altro non credo esista questa distinzione… ho sentito dire tante stupidaggini in merito al “baritono verdiano” ma non perché io sono un baritono chiaro come colore di voce. Poco tempo fa il M° Muti disse: “ma se non canta Leo, Verdi non si può fare”.
Un critico (che in alcune occasioni non approvo), in un suo famoso libro fu molto bravo a spiegare la differenza fra Verdi e il repertorio precedente (peccato che poi i critici, anche quelli che dimostrano di sapere le cose, non ne tengano conto quando ascoltano) e sostanzialmente dimostrò che il baritono verdiano non può essere un baritono scuro per varie ragioni. In primo luogo perché il baritono scuro difficilmente ha gli acuti e se non si hanno gli acuti Verdi non lo si può cantare. Infatti (non voglio fare nomi) alcuni baritoni scuri che qualcuno qualche anno fa definì come “verdiani”, in realtà non lo sono affatto, perché non sono stati dei grandi Rigoletto o non sono mai riusciti a cantare Trovatore realmente come è scritto, e uno che non riesce a cantare Trovatore com’è scritto non può essere considerato baritono verdiano, perché Verdi è “Il Trovatore”… per tutte le voci! L’opera più significativa di Verdi è il Trovatore…tutto il resto è contorno. Proviamo a pensare alla famosa battuta che disse George Bernard Show..: “il tenore è innamorato del soprano, il baritono non vuole, il basso li benedice tutti”: c’era questa idea teatrale dell’ attor giovane. Questo lo ritroviamo in tutto il repertorio operistico fino a Verdi, in tutto il romanticismo.
Se pensiamo a Rossini, Donizetti, Bellini… il baritono belliniano è un bass-baritone (deve scendere fino al La bemolle basso), tanto è vero che si dice che prima di Rossini non esistesse il baritono. Nei Puritani, il baritono canta nella stessa tonalità (anche il duetto), del basso; poi il basso risolve giù e il baritono risolve su e il protagonista drammaturgicamente parlando è il tenore che, per questa ragione deve risaltare ed essere più acuto. Verdi ha spostato questo: ha abbassato nella tessitura il tenore ed ha alzato il baritono, tant’è che nel terzetto del primo atto del Trovatore canta più alto il baritono del tenore. Quindi se non ci sono gli acuti, Verdi non si canta… si fa finta. Altrimenti si dice lo canto com’è scritto… ma lasciamo perdere
Qual è il ruolo che ha portato in scena il maggior numero di volte e quello al quale si ritiene più affezionato
Sicuramente il ruolo che ho cantato di più è Rigoletto, circa 400 volte, subito dopo Il Barbiere di Siviglia, ma io sono affezionato a tutti i ruoli che canto. Per esempio questo Gianni Schicchi, è un ruolo al quale sono molto affezionato. Tra l’altro la prima volta che cantai in quest’opera facendo lo Spinelloccio, (oltre al doppio del protagonista) c’era in produzione l’autore… ovviamente non Puccini ma Gioacchino Forzano… ero a Spoleto nel ’68 ed è stata un’esperienza indimenticabile. Certo i ruoli ai quali forse sono più affezionato, sono Rigoletto e Barbiere che comunque sono i due ruoli immagine per baritono. Infatti se penso ai grandi baritoni del passato: Galeffi è stato un grande Barbiere e un grande Rigoletto, Bechi, Stracciari, De Luca, Ruffo, Tagliabue, sono stati grandi Barbieri e grandi Rigoletto… tutti gli altri, forse qualcuno è stato un buon Rigoletto ma non un buon Figaro, o viceversa.
Cosa pensa della filologia applicata all’opera e secondo lei come andrebbe gestita ?
La filologia è una parola piena di interessi, non ultimo quello economico, ma sicuramente anche culturali. Io la filologia l’ho sempre fatta ma mettendo gli acuti.
Provo a rispondere con alcune considerazioni e esperienze dirette. Tra le varie fortune, ho avuto anche quella di conoscere un personaggio come Tenaglia, lui era quello che, facendo le veci di Puccini, firmava l’autorizzazione ai cantanti per cantare.
Si conoscono delle lettere in cui Verdi scriveva ai vari responsabili dei teatri: “voglio sapere chi canta”. Cosa voglio dire con questo, voglio dire che se agli autori non andava bene chi cantava… non lo facevano cantare. Se invece accettavano il tal cantante e questo cantava degli acuti non scritti, è evidente che questi erano accettati anche dall’autore… altrimenti non l’avrebbe fatto cantare. Consideriamo che gli acuti non li abbiamo inventati noi ma furono inventati all’epoca dei vari compositori!
Ricordiamo anche che in una lettera dopo la prima di Macbeth Verdi scrive a Ricordi: “è stato un trionfo, abbiamo bissato il coro”. Questo significa che anche Verdi accettava i bis, e gli facevano comodo quando significavano successi e incassi.
Tornando alla domanda, ritengo che la vera filologia è quella approvata dall’autore, non il bozzetto…. Quindi fare della filologia andando a recuperare i bozzetti non è filologia…va dichiarato “questi sono i bozzetti”.
Anche il pittore al termine del suo quadro dice: “questa è la mia opera e la firmo”… quelli che vengono prima son bozzetti. Non tutti sono Mozart in grado di scrivere di getto e senza correzioni. Normalmente le strumentazioni venivano fatte durante le prove.
Insomma, una cosa è parlare di filologia per sprecare parole, una cosa è cercare di capire le intenzioni dell’autore cercando fino in fondo di rispettarlo, cosa che personalmente ho sempre fatto. Nella musica un quarto deve essere un quarto e una semicroma deve essere una semicroma e non lo è mai casualmente… questo è il grande problema. Se l’autore ha messo l’accento in quel punto è lì che va l’accento… una volta un regista mi chiese “voglio Figaro che entra dicendo “voi vorreste travestirvi” così tutto attaccato come se sapesse già tutto ed io gli risposi: “NO! perché l’autore…” e il regista “eh… tu e l’autore!”. Al che gli dissi, "se l’autore voleva che facessi come dici tu le note sarebbero state altre. Questa è la filologia, il rispetto dell’intenzione e non l’acuto si o l'acuto no.
Nel corso della sua lunga carriera quali sono i cambiamenti più marcati che ha notato nell’ambiente teatrale?
Un cambiamento in positivo è il buon rapporto che c’è oggi fra i giovani e che onestamente fra i cantanti di una volta c’era poco. C’era invidia, nessuno insegnava niente a nessuno, ognuno custodiva i propri segreti, c’erano le famose pestate di vestito al soprano, piuttosto che altre cose molto meschine ma che erano sostanzialmente legate ad un periodo; quindi non esclusiva del mondo dell’opera. Erano problemi presenti nella vita di tutti; erano il periodo in cui a scuola davano le bacchettate sulla mani. Oggi i giovani si telefonano e si danno consigli, si aiutano anche fra stesse tipologie vocali, e questo è molto positivo.
L’aspetto negativo è che si è persa una scuola. Io ho avuto la fortuna di fare il mio primo Schicchi con Gioacchino Forzano, ho avuto la fortuna di frequentare, così come Ruggero (Raimondi), due anni di lezioni con Luigi Ricci a Roma. Ho cantato Pagliacci con Mario Del Monaco, ho lavorato con Molinari-Pradelli, Karajan e tutti i più grandi. Abbiamo avuto la fortuna (io forse sono l’ultimo di quella generazione) di prendere, di bere da quelli che venivano con la conoscenza diretta degli ultimi autori. Per esempio ho avuto un’amicizia di quindici anni con il M° Solti e non dimentichiamo che il M° Solti era quasi stato costretto a fare il direttore da uno che si chiamava Richard Strauss. Questi personaggi, così come altri, ad es. De Fabritiis, Molinari-Pradelli, Patanè, avevano lavorato e vissuto con gente come Mascagni, Giordano, Cilea, quindi li avevano conosciuti! Io… io quando mi trovo a fare Gianni Schicchi, dico delle cose con educazione anche al regista e ai colleghi che magari non ci hanno pensato, ma non sono cose che mi sono inventato io, le ho apprese da esperienze dirette con Forzano, ma anche con Tenaglia. Oggi si stanno perdendo queste esperienze e questo è un vero dramma… si sta perdendo la continuità. Io non credo che non ci siano le voci… e questo è un altro aspetto sul quale sono cambiate le cose: io ho iniziato a studiare nel 1956 e fino al ’64 ho fatto solo vocalizzi… ora in due anni si va sul palcoscenico della Scala.
In questi giorni Leo Nucci è acclamato protagonista di Gianni Schicchi al Teatro degli Arcimboldi. Personalmente l’ho applaudita tre sere fa e posso dire che basterebbe la soddisfazione che si prova sentendole recitare l’ultima frase per giustificare il costo del biglietto. Personalmente considero Gianni Schicchi un autentico gioiello in quanto puro valore artistico. Qual è la sua opinione riguardo a questo lavoro pucciniano e come intende il ruolo del protagonista di quest’opera?
Io lo adoro e ho spiegato poc'anzi le ragioni… per esempio, dopo queste recite milanesi andrò a Trieste per Barbiere e poi andrò a Vienna dove canterò prima Pagliacci e appunto Gianni Schicchi. Tutto sommato anche spostato nel periodo, così come in questa produzione, onestamente non mi dispiace perché mi dà la possibilità di mettere in scena un personaggio (pur rimanendo fedelissimo anche nella voce sottile, esattamente come scritto da Puccini e Forzano), che mi è vicino perché io sono nato a 10 Km dal Mugello, mentre mio papà addirittura è nato nel Mugello, mio nonno dalla parte di mamma faceva il lavoro di Gianni Schicchi quindi in quest’opera respiro la mia aria. Io faccio un po’ una macchietta ma questi uomini me li ricordo bene che venivano a cantare nelle osterie, magari analfabeti ma furbi e abilissimi.
Quali fra i grandi baritoni del passato considera quale punto di riferimento assoluto per la storia dell’opera lirica?
Ce ne sono tanti, i nomi li conosciamo e sono quelli a cui si riferisce il grande pubblico. Io ne ho due in particolare, anche perché per caratteristiche forse gli assomiglio un po’: uno è Battistini e l’altro è De Luca… io credo di essere il seguito di De Luca al Metropolitan, perché solamente De Luca e io (fra i baritoni italiani) abbiamo fatto così tanti ruoli nel teatro newyorkese.
A me non interessa molto la voce, nel senso stretto della parola; io ho la fortuna di avere una voce, spero gradevole. Io amo l’opera come teatro, ecco perché amo molto Verdi e Rossini; naturalmente amo anche il belcanto ma preferisco vedere l’opera nel suo complesso come forma teatrale, come per esempio qui nel Gianni Schicchi.
In fondo c’è un errore di valutazione nell’opera che è cresciuto con gli anni: IL MELOMANISMO, che sotto certi aspetti ha guastato l’opera. Trovo sbagliato andare a teatro per sentire la voce, ecco dove la filologia mi trova consenziente. Questo si chiama MELODRAMMA ed è il “recitar cantando” dove la parola è importantissima. Se tutti siamo innamorati della Callas, forse è anche perché nelle sue interpretazioni si capiscono tutte le parole.
Lei ha sempre dimostrato una grande disinvoltura scenica; questo significa che il suo amore per la recitazione viaggia di pari passo con quello per il canto?
Ho sentito il complimento che mi hai fatto riguardo al finale di Gianni Schicchi… Beh! Secondo me il momento più importante dell’opera è quella parte recitata nel finale, perché si può anche fare con intonazione cantata, ma allora tanto valeva che Puccini scrivesse la musica invece deve essere proprio recitazione. Comunque sia, il melodramma è la forma teatrale più completa. Cosa manca nella prosa (che io amo molto)? Manca la musica! Cosa manca nel balletto? Manca la voce! Nell’opera c’è tutto!
Cosa pensa della tecnica vocale, argomento che fa sempre tanto discutere. E’ una sola quella giusta, oppure si possono ottenere buoni risultati anche con tecniche diverse?
Qui mi trovi sprovveduto perché, come mi insegnò il M° Bizzarri e lo dico con una battuta: “dì quando ti chiedono di tecnica che non ne capisci niente”… in seguito ci ho ripensato, lui è morto nell’ottanta, sono passati 24 anni e sono sempre più convinto che avesse realmente ragione perché io di tecnica ne capisco pochissimo. Mi sembra di sentire tante di quelle sciocchezze anche perché, tutti dicono “che tecnica che hai?”, mah! Io non lo so se ho una buona tecnica. Io penso a quel che dico non penso a dove metto il suono. Ma fare questo mestiere è un fatto di voce o un fatto di arte? Se è un fatto di voce è limitativo e allora “l’affondo qua, e porta qua e porta là…” però io sono ancora qui a 62 anni con tutto quello che canto, vuol dire che qualcosa azzecco, per il momento la voce non mi balla e steccare non stecco… però attenzione, oggi io sento i ragazzi che mi fanno tante domande riguardo a questo argomento; quando mi parlano di passaggio io dico “quale? Quello a livello?”. Se un pianista fa “do - re – mi” e passa il pollice per fare “fa – sol – la - si – do”… e fa sentire il passaggio è evidente che sbaglia… la stessa cosa è per il cantante. Non deve succedere che sento: questo è il mi, lo copro… è una cosa assurda. E’ assurda perché è assurda questa mania che è diventata “la tecnica”… e credo anche di immaginare perché lo sia diventata. Perché ci sono un sacco di “venditori di fumo” che se non avessero diffuso questa cosa della tecnica allora non lavorerebbero più. Un po’ come nel calcio… ci sono i teorici che parlano di tecnica, ma poi i gol li fanno quelli che sono capaci di giocare a pallone non quelli che preparano lo schema. Io sento i ragazzi che mi fanno queste domande e questo mi preoccupa perché questo purtroppo va a discapito dell’arte.
Da chi ha appreso la tecnica vocale?
Da Marchesi a Bologna e molto probabilmente me l’ha impostata in maniera giusta. Sul fiato non ero tanto d’accordo e me lo sono trovato per conto mio andando in bicicletta e osservando i bambini respirare soprattutto quando piangono. I bambini quando piangono si sentono a chilometri di distanza e questo significa che impostano la voce bene e mettono il fiato giusto.
Se pensa a qualche grande personaggio dell’opera, fra quelli che ha avuto modo di conoscere o collaborare, chi le viene in mente per primo?
Mi vengono in mente subito, Karajan, Solti, Del Monaco, Siepi, o ancora in carriera, Ghiaurov, Freni, Raimondi, ho cantato con Tagliavini, ero amico di Corelli, di Renata Tebaldi. L’altra sera ho sentito telefonicamente una grande: Magda Olivero. Sul pianoforte ho delle foto, ritratto di fronte all’orchestra con Karajan che mi sta parlando; ho cantato con uno come Richard Tucker e fatto un grandissimo video di Forza del Destino con Leontyne Price. Ho fatto dischi con Joan Sutherland con Renata Scotto… e sempre cantando le grandi parti. Mi hanno mandato un cd di un Ballo in maschera di Chicago… mai sentita una roba del genere, Luciano (Pavarotti) in una forma incredibile… ho cantato più di cento recite con Pavarotti, con Domingo… insomma, sono un uomo fortunato.
Quali sono i suoi programmi per l’immediato futuro e come vede invece il suo futuro un po’ più remoto?
Tra breve parto e ritorno in giugno, dopo poco riparto e tornerò solamente a dicembre… dall’anno prossimo vorrei vedere se fosse possibile darmi una regolata ma sarà difficile.
Finché sto così faccio il professionista, non è cupidigia, non sono un cacciatore di recite, ma come faccio a dire di no finché mi chiamano la Scala, il Met, o Vienna dove sono già Kammersinger ed ora mi fanno socio d’onore del teatro. Il Met dopo 25 anni mi dà ancora delle produzioni… ad aprile farò Nabucco, poi a dicembre la nuova produzione di Vespri e nel 2006 una nuova produzione di Don Pasquale nel ruolo del protagonista…come si fa a dir di no? Inoltre in ogni teatro trovo sempre tante persone che mi vogliono bene e questo per me è molto importante. Comunque, se le persone che io tengo maggiormente in considerazione, mia moglie e mia figlia, mi dovessero dire che c’è qualcosa che non va nelle mie interpretazioni, io alzo subito il telefono e chiudo. E poi mi piacerebbe tanto diventare un buon nonno, sperando che mia figlia mi dia presto un nipotino... Poi se ne avrò voglia e se ne avrò le capacità, non insegnerò sicuramente il canto, ma forse potrei dare dei consigli utili su come si sta in palcoscenico e come si legge uno spartito … non dico insegnare, ma forse dare dei consigli.
Come vede il futuro dell’opera lirica e a suo parere cosa andrebbe fatto per avvicinare i giovani all’opera, con lo scopo di garantire la sopravvivenza a questa forma di spettacolo?
Questa è una domanda che sento fare da quarant’anni e tutto prosegue senza che cambi nulla, perché noi non abbiamo la cultura di altri Paesi… noi siamo dei melomani. Io ho fatto una serie di concerti in dicembre, dove in ogni città c’era almeno una sala da concerto… trovatemi voi sale da concerto in Italia… non ne esistono! Ma perché c’è un approccio diverso verso la musica. Magari anche spettacoli, che a volte vengono deplorati dalla critica, potrebbero essere utili per avvicinare un po’ i giovani. I giovani si avvicinano soprattutto se non vengono respinti e noi non possiamo far diventare l’opera uno spettacolo di élite. A Londra mi è capitato di fare degli spettacoli dove tolgono tutte le poltrone dalla platea e lasciano entrare tutti i giovani a prezzo stracciatissimo e i giovani entrano in jeans si siedono per terra e si divertono come matti.
Come valuta il ruolo di OperaClick in relazione alla necessità sempre maggiore di rinnovare e stimolare il pubblico operistico?
Ben venga OperaClick! Anch’io ho il sito perché internet fa parte del nostro tempo. Anche se l’opera è una forma d’arte di nicchia, in internet c’è molto interesse... è fondamentale per andare incontro ai giovani, per dare un tocco di moderno e per contribuire a svecchiare l’ambiente.
Danilo Boaretto