In un pomeriggio di ottobre dal clima ideale, all’Auditorium Parco della Musica fremono gli ultimi preparativi per la Festa del Cinema, e si respira un’attesa compiaciuta. In parallelo, nella Sala Santa Cecilia si è appena conclusa la prova pomeridiana del concerto che Jakub Hrůša presenterà l’indomani e poi i due giorni successivi, con Ouverture e Danze da La sposa venduta di Smetana, quindi il pezzo forte La sposa dello spettro di Dvořák. Il Maestro mi accoglie in camerino, e ne intuisco la squisita umiltà da dettagli impalpabili nel tono di voce e nel modo in cui mi prega di accomodarmi ‘a mia scelta’. In mezz’ora ne scaturirà una conversazione densa, con lui rilassato e in alcuni momenti concentrato in modo plastico.
Lei sta vivendo un periodo di grandi soddisfazioni personali che, se da un lato sono senz’altro gratificanti, potrebbero indurre qualche sbilanciamento a livello emotivo. Come si sente quindi oggi, in qualità di persona?
Mi sento (fa una lunga pausa) mi sento ancora ai primissimi inizi della mia carriera. Quindi quando mi si chiede ‘Tieni delle masterclass?’ oppure ‘Insegni?, ne resto sempre sorpreso. Infatti mi sento come qualcuno che sta ancora esplorando e imparando cose nuove. Sono quindi molto felice, equilibrato e decisamente soddisfatto per svolgere una professione splendida con persone che stimo. Lavoro infatti in una modalità grazie alla quale non ho bisogno di convincere le persone con cui lavoro, a ogni passo riguardo alle mie scelte; per così dire fluisce naturalmente con le orchestre. Credo di lavorare un po’ troppo, quindi di tanto in tanto immagino un mondo ideale in cui possa godere di più tempo libero. In realtà non saprei proprio come attuarlo: dovrei necessariamente cancellare programmi come quello di questa settimana a Roma, che non voglio assolutamente cancellare. Ovunque vada mi sento dire “Se vuoi far meno, fa’ di meno!”, al che rispondo “Va bene quindi se non tornassi per la prossima stagione?”, e loro “No, no, no! “ (ride di gusto). Ecco uno dei motivi principali per cui non vedo l’ora di iniziare questa avventura a Londra, con la direzione musicale alla Royal Opera House: ci sarà senz’altro un grande carico di lavoro, tuttavia sarà a casa, nel luogo dove vive la mia famiglia, e potrò passare un po’ più tempo con mia moglie e miei figli. Questa è l’unica piccola macchia rispetto alla soddisfazione completa in questo periodo per me, tutto il resto è splendido. Inoltre penso ora di aver appreso come lavorare in modo più efficace, di conseguenza a volte mi sento esausto ma è un ‘esaurimento piacevole’. Come dopo aver corso una maratona, al termine ti senti distrutto ma allo stesso tempo sei felice.
Se non le dispiace torneremo fra un po’ al suo nuovo incarico londinese. Ora siamo a Roma, dove nei prossimi giorni presenterà al pubblico un programma che incuriosisce. Con quali immagini lo descriverebbe a un pubblico di non specialisti?
È un thriller. Senz’altro una storia che oggi farebbe gran successo al cinema, ma ovviamente a quell’epoca non esisteva. Non vorrei in alcun modo sminuirne la componente musicale; infatti da questo punto di vista il brano presenta in abbondanza invenzione, fantasia e immaginazione; lo fa tuttavia in modo estremamente cinematografico. Potrebbe essere descritto come un’opera condensata, poetica e accattivante. Il tutto con appena tre solisti e il coro. Il suo messaggio ha valenza universale, benché qualcuno potrebbe equivocarlo come di peculiarità ceca. Non è per nulla vero: la storia della Sposa dello spettro, che nell’originale ceco sarebbe ‘La veste nuziale’, ha qualità di tipo quasi mitologico unita a influenze cristiane, ed è diffusa in diversi Paesi di tradizione slava e germanica. È la vicenda di un contratto tra una persona vivente e un fantasma, quindi di come le cose si mettano male quando si tenti di comunicare con il fantasma, infine di come ci si possa salvare attraverso la preghiera se sincera. Ecco la trama di un film horror dei nostri giorni! Tuttavia, a differenza degli horror, Dvořák non era interessato solamente agli aspetti terribili della storia, ma anche ai risvolti spirituali. Per questo motivo considero le pagine più belle non quelle drammatiche, bensì quelle più intime. È una composizione splendida: ci sono il dramma e l’azione, ma anche contemplazione, profondità e preghiera, con un’intimità assolutamente personale, che lo rende per me speciale. Dvořák era dotato di invenzione e talento musicale incredibili, ma non era un drammaturgo eccezionale. Ha sempre ambito al successo nel campo dell’opera, al punto da comporne almeno dieci. Con l’eccezione di Rusalka, che finalmente viene riconosciuta ovunque come un capolavoro, ha faticato assai nel convogliare le sue invenzioni musicali in una drammaturgia che funzionasse. Al contrario Janáček, ma anche Puccini e ovviamente Verdi e Richard Strauss intuivano esattamente come costruire il dramma sul palcoscenico, mentre Dvořák aveva difficoltà con tutto ciò. Per questo motivo non suggerirei un’esecuzione in scena di questo pezzo, funziona benissimo in forma di concerto perché porta una componente teatrale al concerto stesso. Con l’ausilio dei sopratitoli in sala, penso che il pubblico lo troverà avvincente e toccante.
Suonerà questo brano con un’orchestra italiana, di cui da alcuni anni lei è direttore ospite principale. Come si trova a lavorarci, e quali pensa ne siano le peculiarità in rapporto ad altre grandi orchestre con cui ha il privilegio di lavorare?
Penso che sia una bella amicizia dove far musica in libertà. Amo la varietà di progetti che sviluppo con loro, perché sono curiosi. Ho splendidi ricordi sia nel repertorio ‘standard’ sia in specialità di questo genere. È una grande soddisfazione, sento che suonano per me e per il pezzo che facciamo con grande concentrazione. Trovo che il loro approccio mentale sia particolarmente immediato, senza preconcetti di fronte alla musica. Se a loro piace qualcosa riesco a sentirlo, ed è molto importante per me. Non tutte le orchestre sono così, alcune pongono una sorta di facciata che non consente di intuirne le emozioni. Quindi in alcuni progetti la loro risposta è stata super entusiastica, in altri solo moderatamente entusiastica, in ogni caso c’è una risposta emotiva. È un’orchestra umana e personale: non ragionano in termini di “Abbiamo suonato questo, arrivederci alla prossima volta“, ma c’è sempre un coinvolgimento da parte loro. Infine ci troviamo d’accordo sul lavorare duro: è molto bello, perché quando si lavora duro da ambo le parti si raggiunge presto la soddisfazione. Mi piace un lavoro intenso ed efficace, per alternarlo al riposo. Per esempio oggi abbiamo finito le prove un’ora prima del previsto! Vale spesso in brani lontani dal loro repertorio d’elezione, ne abbiamo suonati diversi di Janáček, e mi piace il modo con cui lo esplorano. C’è fiducia reciproca, così sappiamo che ci godremo il concerto.
A proposito di repertorio italiano, sogna o magari ha già pianificato qualche opera italiana qui? Magari di Verdi?
Senz’altro Verdi. È solo questione di tempo, non è imminente. Ci saranno Verdi, Puccini e altri, naturalmente con minor frequenza di Pappano, ma non ho intenzione di sottrarmi a questo repertorio.
Qual è il suo approccio al far musica? Prende in considerazione solo gli aspetti strettamente musicali, o si lascia influenzare da altri quali la biografia del compositore, la tradizione esecutiva, i sottotesti?
Ogni cosa è presa in considerazione, tanto le informazioni quanto le ispirazioni. Tuttavia io faccio musica, non sto tenendo una conferenza. È un background utile da possedere, per esempio efficace quando intuisco che un’orchestra non abbia particolarmente chiaro qualche passaggio, in quel caso posso condividere con loro quello che ci sta dietro. In tutta onestà non sono mai andato in prova con l’idea “Adesso voglio esplorare questo lato particolare della composizione’. Seguo un approccio più immediato: studio il brano a fondo per comprenderne la struttura formale e i suoi contenuti, quindi semplicemente lo affronto. Non amo l’eccessiva speculazione: i musicisti sono tali e non musicologi né storici della musica né giornalisti! Quando mi appassiona un certo brano non rifletto troppo, chi ha un forte senso della musica non ha bisogno di molti altri strumenti… è già di per sé così forte e bella, che non serve affiancarle concetti. In teatro è leggermente diverso, ma anche lì il senso della musica è centrale e potrebbe sorgere un problema quando il regista non si fidasse a sufficienza della musica stessa, tentando di ‘aiutarla’ con qualche concettualizzazione. È un peccato, dovrebbero dedicarsi ad pezzi di cui si fidano di più. Quando la musica è suonata bene, lo stesso pubblico non ha bisogno di altro. Se l’esecuzione è convincente e tu hai cuore e mente aperti, senza blocchi derivanti da eccesso di pensiero o pregiudizi, semplicemente ne godi. A volte parlare della musica può prevenire il nostro pieno godimento, mi piace parlarne dopo l’esecuzione ma non prima. Troppa preparazione rischia di creare aspettative, ma se poi le cose vanno diversamente? In tal caso, anziché ascoltare la musica si combatte contro se stessi. È come in un museo di pittura: da ragazzo mi preparavo a fondo prima di vedere ogni singolo dipinto, e dal vivo confrontavo quello che avevo studiato con ciò che vedevo. È senz’altro un piacere intellettuale, ma dopo tre quadri non provavo emozioni. Gradualmente ho scoperto che è più bello osservare per il tempo che serve, senza informazioni, idealmente solo due o tre sale anziché dieci (sarebbe come se tenessimo concerti sinfonici di dieci ore, da uscirne confusi!). Guardare, sentire, contemplare. E solo quando ho finito, posso eventualmente leggere qualcosa. Lo raccomando fortemente al pubblico: è meglio che il lavoro intellettuale segua l’ascolto. Per esempio, è esattamente il modo in cui da ragazzo ho sperimentato le più straordinarie esperienze musicali. Senza alcuna eccezione, é accaduto quando non ero affatto preparato… a quel punto venivo rapito dalla musica! Non lo dimenticherò mai, ad esempio con le sinfonie di Mahler, la Sagra della primavera o Janáček. Fu lo stesso per le prime opere che ho visto in teatro: Evgenij Onegin, Rigoletto e Nabucco. Intuivo vagamente la trama, ma sentivo fortemente la musica. Solo da quel punto iniziavo a studiare, in modo che la conoscenza si depositasse su un’esperienza già saldata nel profondo di me stesso. Ecco l’approccio che preferisco. Purtroppo ai nostri giorni tutto ruota attorno alla pubblicità: le persone devono essere in qualche modo informate per convincersi di venire in sala, anziché restare a casa per guardare la televisione. È difficile, lo riconosco, ma sono convinto che le migliori esperienze abbiano a che fare con lo stupore di fronte a qualcosa di inaspettato.
Per l’ultima domanda provo a sintonizzarmi sulla sua lunghezza d’onda. Anziché razionalizzare, le chiedo un’emozione ciascuna che associa al suo nuovo incarico a Londra e al lavoro, da direttore giovane, con le orchestre di giovanissimi come la Gustav Mahler Jugendorchester.
Londra è lo stupore di una comunità, che include i musicisti ma anche il pubblico, i tecnici del palcoscenico e i mecenati. È una comunità ampia, che lavora in armonia per l’amore verso l’opera. C’è buona volontà da parte di tutti per contribuire all’obiettivo comune. Ne ammiro l’estremo fairplay, non comune nel mondo dei teatri con le loro inevitabili battaglie interpersonali e macchinazioni. Tali dinamiche non sono assenti perché resta un teatro, ma rispetto ad altre realtà le relazioni umane sono assolutamente gradevoli. Riguardo orchestre giovanili vorrei condividere un pensiero. Quando sono andato a condurre la Gustav Mahler Jugendorchester mi aspettavo energia selvaggia, apertura mentale, entusiasmo, motivazione e altre caratteristiche che si associano a alla gioventù. Le ho riscontrate tutte, ma in aggiunta ho trovato qualcosa di inimmaginabile: una dose incredibile di concentrazione, precisione, abnegazione, disciplina… sono rimasto senza fiato! Di questi tempi è comune la lamentela rispetto alle giovani generazioni, ritenute incapaci di concentrarsi per lunghi periodi, abituate a ottenere tutto con un click, e disperse su troppe cose in parallelo, nessuna delle quali affrontata in modo appropriato. Lì mi son trovato circondato da quasi cento musicisti, che mi hanno insegnato a essere più paziente con la musica di quanto fossi già. Certamente parliamo di un gruppo speciale, una élite frutto del livello assai competitivo delle audizioni, tuttavia restano esseri umani ed è incredibile ciò che l’istinto musicale possa produrre nelle loro menti giovani. Insisto, sono esseri umani normali, non focalizzati esclusivamente sulla musica. Rilassati, sorridenti, sanno godersi la vita; tuttavia quando il momento lo richiede sanno attivarsi e restare concentrati al 100%. Parliamo della Nona di Mahler con loro: un musicista di cui ho molta stima pensava che ragazzi così giovani non avessero un’esperienza esistenziale tale da intuirne il significato. So che non possono comprenderne senso, ma ciò che ho udito in concerto è come se lo sentissero. Il loro legame con la musica è tale da far loro toccare alcune paure profonde dell’essere umano maturo in modo subconscio. Senza sapere il come, resterà una fonte di ispirazione per il resto delle loro vite. Ed è stato di ispirazione per me, vedere queste persone suonare in maniera così meravigliosa un brano considerato tra i più difficili. Mi hanno impressionato, infondendomi speranza in un mondo coi problemi geopolitici e culturali che conosciamo, perché ho toccato con mano il potenziale della nuova generazione
Grazie mille Maestro per la sua sensibilità, per favore continui a coltivarla perché la società ne ha bisogno.
Marco Peracchio