Manca meno di un’ora alla prima esecuzione in forma scenica de Il n’est pas comme nous!, uno dei nuovi progetti del Cantiere Internazionale d’Arte. L’autore – Alessandro Solbiati – ha accettato di parlarcene e lo incontriamo nella Piazza Grande di Montepulciano proprio davanti al Cortile delle Carceri, dove a breve si accenderanno le luci sulla rappresentazione.
Da un’azione scenica del 2018 a un’effettiva rappresentazione teatrale: cosa si può raccontare del percorso di vita di Il n’est pas comme nous!?
Per me questa resta un’azione scenica ed è nata su una persona, Mathilde Barthélémy, un’attrice e soprano (in quest’ordine) francese. C’è anche un motivo affettivo perché Mathilde è figlia di una grande amica, Anna Aubert, che aveva creato la mia classe di composizione al Conservatorio di Tours. In breve, la cosa è nata così: quando il marito di Anna è venuto improvvisamente a mancare ho voluto fare qualcosa sia per lei, sia per la figlia e dato che l’abilità principale di Mathilde è quella di essere un’attrice che canta – e non una cantante che recita – ho iniziato a pensare di scrivere qualcosa che andasse in questa direzione, incarnando in una sola persona tutti i personaggi del Retablo de las maravillas, impiegando questa alternanza fra cantato e parlato per passare rapidissimamente da un personaggio all’altro. Attorno a questa prima idea si è formata la visione di una sorta di carro di Tespi, quindi un teatro iper-povero con trio d’archi e un percussionista (con la richiesta di percussioni che stessero in una station wagon), una situazione in cui Mathilde Barthélémy incarnasse il teatro stesso. Tra l’altro nelle ultime esecuzioni per il ruolo del soprano-attrice è subentrata Maria Eleonora Caminada, non meno straordinaria di Mathilde anche perché agisce in una lingua non propria, il francese, e non è attrice in partenza: malgrado questo la sua forza scenica, e la sua magnifica caratterizzazione vocale fanno di lei un’altra interprete ideale. Sta di fatto che fra le esecuzioni in Francia e le riprese in Italia – due al GAMO e a Trieste – mi sono chiesto se fosse possibile proiettare questo evento, che fino ad allora avveniva con cambi di cappello, direttamente sulle scene. La difficoltà è la caratteristica dell’avere una sola persona che fa tutto e a questo punto avrei potuto riscrivere tutto dividendo i personaggi fra diversi interpreti, ma sarebbe stata un’altra cosa: io volevo rendere questa cosa scenica così com’è. Così è nata questa scommessa, vedere cosa è possibile trasportare sulla scena, e vivo questa serata come un esperimento o se vogliamo un primo tentativo realizzato anche con i suggerimenti del regista Guglielmo Del Sante; in fin dei conti, mettere in scena un’opera pensata come tale è “facile”, trasformare in scenico una cosa che nasce diversamente è molto più difficile. Così è nata l’idea di visualizzare sulla scena tramite i mimi quello che avviene attraverso le parole della solista: la cantante diventa così narratrice e quello che avviene sulla scena è la proiezione dell’evento attraverso i mimi; questa è una prima possibilità e forse non è nemmeno quella definitiva, si potrebbe creare qualcosa di più astratto, ad esempio, ma visto che siamo nel Cantiere Internazionale io vivo questa esecuzione come se fossimo in un vero cantiere dell’artigianato musicale.
Perché la scelta di questo preciso testo di Miguel de Cervantes?
A me piace molto scegliere testi che abbiano dimensioni ulteriori a quella narrativa e questo atto unico è spaventosamente contemporaneo. La storia è quella di un ciarlatano che mostra un teatrino in cui si vedono cose meravigliose a meno che non si appartenga a delle categorie disdicevoli, nello specifico ebrei convertiti e figli illegittimi; tutti sono costretti a dire di vedere qualcosa altrimenti significherebbe ammettere di far parte di una di quelle categorie. È una storia sull’ipocrisia che genera appartenenza collettiva e il diverso, l’unico che dice di non vedere nulla in quel teatro e quindi la verità, è un corpo estraneo da aggredire: la diversità che viene aggredita e l’ipocrisia collettiva che diventa verità per accettazione comune è una cosa così potentemente attuale da farmi sembrare che questo testo del Cinquecento fosse più adatto all’oggi che al XVI secolo.
Nell’opera si parla molto del rapporto tra realtà e sua rappresentazione, teatro e metateatro; qual è il tuo rapporto con il teatro e il concetto di rappresentazione?
Il mio rapporto personale come compositore è nato molto tardi: fino ai miei cinquantun anni avevo detto a me stesso e agli altri che non avrei mai fatto teatro musicale, la motivazione è una sorta di antipatia per il fenomeno sociale dell’opera in Italia. Avevo rotto questo rapporto negativo non tanto decidendo di fare teatro ma decidendo di mettere in scena un testo preciso, che guarda caso è un testo potentemente significativo quando ho composto l’opera nel 2007 ma oggi non è da meno, la Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij, quindi il controllo della coscienza con l’inquisitore che afferma come l’uomo non voglia essere libero ma preferisca avere qualcuno che gli dica come pensare. In rapporto con l’allora era berlusconiana mi sembrava di forte attualità. Di certo è questo alla base del mio rapporto con la scena, trovare un testo che abbia radici nel passato e forza nel presente, dopodiché partire da una mia visione scenica e anche del gesto scenico da condividere con il regista.
Il n’est pas comme nous! si aggiunge al gruppo degli altri titoli: l’opera radiofonica Inno, Il carro e i canti, Leggenda, l’opera virtuale Il silenzio e il canto, Il suono giallo. Cosa c’è nel teatro di Alessandro Solbiati?
Quello che mi ha convinto a farlo. Ho sempre più creduto (parlando di musica extra-teatrale) nella necessità dell’evento sonoro che comunichi il suo percorso e la sua evidenza; credo che i miei pezzi siano diventati nel corso del tempo sempre più chiari nel loro percorso formale: “chiaro” non significa rinunciare alla complessità, trovare un equilibrio tra chiarezza e complessità è lo scopo della mia vita compositiva. Arrivati a un certo punto, credo che la mia musica fosse diventata un teatro in potenza, nel senso che possedeva un’evidenza dell’evento, e avendo sempre parlato di narratività si poteva pensare di proiettare l’evento sulla scena. Ma perché farlo? Effettivamente il teatro – non l’opera, quello aristotelico della catarsi, visualizzazione di percorsi psichico-narrativi – possiede una enorme possibilità comunicativa perché consentendo di visualizzare l’evento la sua potenza comunicativa è davvero forte e può veicolare l’intenzione espressiva in maniera importante.
In questa azione scenica abbiamo l’incontro di musica, canto, recitazione anche in prosa e videoproiezioni, ma fondamentalmente tutti i tuoi titoli fondono più discipline in un modo quasi stravinskjiano. È possibile parlare di una nuova concezione di approccio alla realizzazione drammaturgica?
Non spetta a me dire che il mio approccio sia nuovo o no, certo è che vado cercando qualcosa che metta sullo stesso piano testo, canto, evento scenico e musica. Ad esempio, Il suono giallo l’ho sempre definito una «sinfonia scenica», dove questi quattro elementi sono quasi fusi insieme. La mia intenzione è proprio quella di mettere insieme immagine, evento, narrazione e musica; non posso certo dire che sia nuova, questa cosa c’era anche in Euripide, ma è comunque quello che mi interessa: non può esserci una prevalenza di una componente sulle altre ed è per questo motivo che parto sempre da una visione scenica. Di ogni opera che ho scritto potrei dire qual era l’intenzione scenica di partenza, rafforzatasi dove è stato possibile dialogare con il regista.
Riallacciandoci a quanto hai detto prima, per un compositore del terzo millennio ha più senso parlare di opera o di teatro?
Per me rigorosamente si parla di teatro. Nemmeno a farlo apposta, l’unica volta in cui ho chiamato «opera» una mia cosa è stato laddove era davvero difficile che fosse un’opera: nel Suono giallo che veniva da Kandinskij il testo quasi non c’era, non c’era un evento vero e proprio perché è una composizione scenica davvero misteriosa, allora mi sono divertito a chiamarla «opera» per vedere se fossi riuscito a trasformare un testo-non-testo come il suo in qualcosa che potesse rientrare nei canoni dell’opera. Era davvero una scommessa, il percorso dell’artista nella creatività con l’idea che nasce, sei convinto di averla afferrata e poi precipita, sei convinto di averla persa per sempre e poi la risalita. In tutti gli altri casi la parola «opera» è comoda al mondo, ma il mio interesse è da sempre e per sempre la potenza di quello che è il teatro, la possibilità aristotelica di concretizzare sulla scena un’energia che prenda forma narrativa. Questo è eterno e l’opera è solo uno dei mille modi in cui questa energia si è incarnata.
Il n’est pas comme nous! ha conosciuto diverse metamorfosi, potrà subirne altre?
Nulla è eterno e il confronto con Guglielmo Del Sante mi ha mostrato – non essendo io un regista – che esistono soluzioni a cui non avevo pensato. In questo caso abbiamo creduto di instaurare un rapporto diretto fra il testo e la sua proiezione scenica, per l’appunto con gli ottimi mimi del Cantiere Internazionale d’Arte. Non so ancora come potermi muovere rispetto a quanto abbiamo fatto qui, forse provando qualcosa di più astratto, ma di certo questo non è l’ultimo passo.
Luca Fialdini