Il giardino del Teatro di Torre del Lago è accogliente, fresco anche nelle giornate torride; abbiamo appuntamento con Pier Luigi Pizzi nel tardo pomeriggio, prima della terza replica di Turandot. Con Vittorio Mascherpa conosciamo il suo modo affascinante di raccontare le cose: la voce pacata, il discorso sempre teso, l’ironia precisissima. Guarda l’interlocutore negli occhi e un sorriso sornione gli aleggia spesso sul viso; ha belle mani affusolate che usa per sottolineare il suo dire. Sentiamo subito che l’incontro sarà una conversazione amichevole ben più che un’intervista formale sul filo delle domande che avevamo preparato.
Marilisa: Noi ci diamo del tu: posso poi scrivere “dandoci del tu”?
Pizzi: Sì, certamente… (sorride rilassato, la camicia azzurra a fiori e i pantaloni chiari, l’aria distesa: se ghiaccio ci fosse stato, è già rotto.)
M: Siamo quasi alla fine di questo Festival: “l’anno del Centenario” con te alla direzione artistica; forse è già tempo di bilanci, ci sono stati tanti consensi e anche tante disapprovazioni sui vituperati social…
P: (serafico) … per fortuna i consensi sono di gran lunga superiori ai mugugni del sottobosco social a cui non do nessuna importanza.Mi è del tutto indifferente. Cioè: ognuno deve sfogare anche le proprie antipatie. Per quello che mi riguarda arrivano spesso da sconosciuti e quindi mi è anche difficile prendere posizione.
Ma mi dicevi dei bilanci: non amo farne. Li deve fare chi guarda i conti, cosa è successo al botteghino. Poi, se sento dire che è stato un successo sono felice.
M: Consideri questa un’esperienza positiva?
P: (deciso) Sì! Questo sì: credo, lo posso dire senza mezzi termini, di avere fatto una piccola rivoluzione. Sono qui da due anni, con Tosca nel 2022 e Butterfly lo scorso anno, ho fatto esperienze isolate e mi sono trovato bene, sennò non sarei tornato. Tutto aveva funzionato a dovere.
Però il programma era certamente ambizioso, quindi una sfida importante, dovevo potermi assicurare che tutto funzionasse secondo un “mio” metodo di lavoro, secondo una necessità di ordine, di rigore. Non perché non pensassi di trovarli già, ma perché dovevo personalmente viverli e controllarli giorno per giorno.
Da qui è nata l’abitudine di riunirci tutte le mattine alle dieci, perché ognuno sapesse cosa lo aspettava durante la giornata di lavoro e i problemi fossero affrontati e possibilmente risolti nella giornata stessa. Tutto questo per assicurare una certa tranquillità, perché è evidente che c’è un momento in cui ci si deve anche affannare, poi però le situazioni bisogna viverle con calma e serenità, e magari anche divertirsi, perché il buonumore aiuta.
M: Qui hai trovato buonumore?
P: Sì, sì!
M: Quindi porterai un bel ricordo di questi giorni toscani.
P: Sì, completamente. Questo è anche rassicurante, in qualche modo, perché è quello che ti permette poi di sentirti protetto.
M: Mi fa molto piacere. E l’abitudine di ritrovarsi tutte le mattine è frequente nella lirica o è più legata alla prosa?
P: No, non è frequente in nessun campo; io l’ho attuata a Macerata, quando sono stato direttore artistico al Festival, per sei anni, e aveva funzionato molto bene. Quindi mi è sembrato che fosse utile riproporla qui, dovendo affrontare un impegno molto lungo: sei nuove produzioni sono una grossa gatta da pelare, si può dire, ma poi questa gatta si è lasciata pelare senza troppi problemi. Devo dire che ognuno di noi, sentendosi direttamente responsabilizzato per quello che lo riguardava, ha dato il meglio di sé, in modo naturale, non perché si sentisse obbligato.
M: Da spettatori si percepiva che ci fosse un nuovo rigore, un’omogeneità dietro le quinte.
P: Questo mi è stato detto da varie fonti ed è una cosa che ho apprezzato perché è esattamente quello che ho cercato di ottenere fin dal primo momento. Il “lavoro di squadra” è fondamentale.
M: Hai parlato di Macerata e sappiamo bene il rapporto che hai con Pesaro…
P: … più di quarant’anni di lavoro, festeggiati l’anno scorso…
M:… quali sono le differenze tra il Festival di Torre del Lago e questi altri importanti festival?
P: Ciascuno ha una sua peculiarità ed è giusto che sia così, sennò sarebbe la noia. Il ROF con Rossini, Cremona con Monteverdi e Torre del Lago con Puccini: benissimo, hanno una loro identità precisa. Così Macerata con lo Sferisterio. Ma per esempio Martina Franca, dove ho lavorato in varie occasioni, si distingue per le proposte insolite: opere rare o dimenticate. Poi c’è Roma, con una serie di spettacoli ambientati nelle Terme di Caracalla. Ravenna. Per restare in Italia, ce ne sono altri, che conosco male.
M: Una propria identità e un proprio pubblico. Qui ti sei trovato con un pubblico “popolare”, dico bene?
P: Sì, “popolare” ed è quello che ho cercato di servire: ho visto come è stata accolta la Butterfly l’anno scorso e ho capito che questo pubblico si aspetta l’opera per quello che è. Ama Puccini, vuole Puccini. Non vuole una tesi su Puccini e neanche una distorsione sulla proposta, che poi viene semplicemente dalla mancanza di rispetto del libretto o della partitura: l’impegno è proporre una rappresentazione nel modo più diretto, più facile, più semplice. E qui entrano in gioco il “lavoro per sottrazione” e tutto il resto. Ma c’è anche la necessità, comunque, di lasciar perdere la tradizione, perché proporre un’opera esattamente com’è stata scritta non vuol dire portarsi dietro tutto quello che su quest’opera si è “incrostato”, in senso negativo.
Vittorio: Quindi Lei “lavora per sottrazione” non soltanto su quello che ritiene inutile sulla scena ma anche su quello che si è incrostato su un titolo?
P:Certo: le patine, la polvere, le cattive abitudini. E questo non succede solo con Puccini. Per esempio Rossini. A Pesaro è appena andato in scena, con la mia regia, il Barbiere: trionfalmente devo dire. Ecco, un’opera che è stata tra le più maltrattate nel tempo, con personaggi ridotti a macchiette, per strappare una risata in più, oppure per assecondare gli sfoghi narcisistici di cantanti gigioni. È un grande impegno presentarla integra, senza tagliare una virgola, far capire che è una commedia, per cui i recitativi sono dei dialoghi che vanno vissuti. I cantanti non devono mai perdere la concentrazione, non pensare solo a che cosa cantare quando l’interlocutore ha finito: devono ascoltarlo e rispondergli. Non è facile farlo capire a certi cantanti, perché spesso ognuno pensa al proprio orticello e se lo coltiva, così amorosamente anche, e magari con successo… Ma questo non basta perché è l’insieme che conta!
In un’opera come il Barbiere, che è una macchina perfetta, tutto deve funzionare, secondo una dinamica assoluta. Per esempio: la “Calunnia”, un pezzo famoso, quanto più è contenuto tanto più risulta diabolico, evidenzia la perfidia e l’ambiguità del personaggio. Se l’interprete viene in scena con il naso rosso perché ha bevuto, un grande fazzoletto per soffiarsi rumorosamente il naso, l’ho visto in passato, ecco che di colpo diventa un’operaccia, una farsa volgare, quello che invece è un capolavoro di comicità ironica e sottile.
In questo senso la sottrazione ha una sua necessità. E di questo beneficiano proprio gli interpreti, quando lo capiscono, che si trovano allora a raccogliere un altro tipo di consenso che non è la risataccia sguaiata ma un’approvazione fatta di complicità e gratitudine.
M: Quello che poi passa al pubblico…
P: Tutto deve essere in funzione del pubblico, come ho immediatamente individuato qui: inutile stare a fare tante storie, bisogna dargli l’opera com’è, al più alto livello possibile. Poi, che la tua estetica piaccia o non piaccia, è un altro discorso; ma l’opera deve essere rappresentata anzitutto nel rispetto più totale della musica, per me sempre in primo piano, e anche della drammaturgia: ma certo, perché no?
Il libretto è importante, non va liquidato con sdegno. Sì, certi libretti sono brutti, non ci piacciono, sono scritti in un italiano che non è il nostro, che vorremmo cambiare: ma il compositore è su quello che ha costruito la sua opera e se è andato bene a lui perché non dovrebbe andare bene a noi? Inutile fare gli schizzinosi, dire schifati “no, per carità!” e permettersi di fare degli scempi come ho visto fare al San Carlo di Napoli, recentemente, con una Turandot vergognosa. Come per caso nessuno l’ha detto a chiare lettere ed è passata, così… Era quella con l’incidente, con la camera d’ospedale che andava su e giù, la macchina su e giù, dei coristi vestiti da trogloditi con delle corna: non si capiva cosa fossero, cosa succedesse, cosa dicessero! Un Imperatore Altoum ripescato da non so quale ripostiglio, il povero Martinucci, seduto su una carriola, non ho capito bene: una situazione mortificante!
M: Il contrario del tuo Altoum, qui.
P: Ma Altoum per me è … (fa un gesto in aria, le mani che volano a indicare un idolo, un dio). Intanto mi rifaccio alla tradizione orientale per cui l’Imperatore non ha età, è un innocente senza età che non cresce mai (sorride sottintendendo Danilo Pastore, che è altissimo.)
M: Lo conosciamo, lo abbiamo sentito varie volte, in Stradella e nella “tua” Incoronazione di Poppea.
P: Lui è un controtenore, mi era piaciuto anche come persona e l’ho proposto a Renato Palumbo: “è un’idea mia” gli ho detto e lui ha approvato: “mi piace, penso anch’io che l’Imperatore abbia una voce chiara.”.
Certo a qualcuno non sarà piaciuto, altri l’hanno apprezzato. Del resto non si può avere mai l’unanimità a teatro, è giusto che sia così.
V: Mi permetta una divagazione, Maestro: quello che diceva di Don Basilio in un certo senso vale, mutatis mutandis, per Scarpia … ad esempio, Tito Gobbi, il mio primo Scarpia dal vivo, era famoso, un grande attore, mi fece un’impressione enorme, però risentirlo adesso…
P: Ricordo bene, fu celebre quel suo secondo atto, con la Callas. Con Tito, abbiamo lavorato insieme; lui regista mi ha voluto come scenografo e costumista, negli anni settanta: Tabarro e Gianni Schicchi a Zurigo. Ci eravamo incontrati per una Tosca, al Lyric Opera di Chicago, in un eccellente rapporto di intesa comune. Lui era un ottimo cantante e uomo di teatro. Certo legato al suo tempo, però … ce ne fossero! Il suo Scarpia non lasciava niente al caso: studiatissimo in ogni dettaglio.
V: Per me il turning point in termini di nobiltà del personaggio è stato con una Tosca alla Fenice, sarà stato verso la fine degli anni settanta, cantava Ingvar Wixell, con Sinopoli, e avevano fatto uno Scarpia completamente diverso da quelli a cui eravamo abituati.
P: Ho conosciuto Wixell, in Aida, a Houston. Era bravo, molto misurato in Amonasro. Posso capire che anche in Scarpia lo fosse.
M: Leggevamo recentemente nel libro di Gavazzeni, La bacchetta spezzata, che lo Scarpia ideale sarebbe uno che non ha mai cantato il ruolo e che non lo conosce. Dopo ti carichi di vezzi…
P: Esatto, quelli che in gergo noi chiamiamo “caccole”.
M: Volevo dire la parola “caccole” ma temevo che fosse poco fine…
P: Ma si chiamano “caccole”. Quelle che uno poi difficilmente se ne libera.
V: Prima parlava del Barbiere e dei recitativi; vorrei chiederle se ci sono conseguenze visuali nella “relativa” libertà del ritmo delle parole nel teatro di prosa rispetto a quello obbligato nel teatro lirico.
P: Ma, in un certo senso la musica ti costringe a dei tempi che in prosa possono essere sicuramente più liberi e dilatati. Le pause, per esempio. Le chiedo a volte ma non sempre il suggerimento viene accettato, perché la partitura non lo consente, ed io mi inchino, sempre.
M: Ma il tuo grande, grande amore cos’è, la prosa o l’opera?
P: (senza esitazioni) Il teatro. Il teatro tout court, il teatro! Poi, per quello che mi riguarda non c’è una grande differenza tra prosa e lirica; nella lirica c’è il condizionamento che ti viene dalla musica, ma questo a volte ti aiuta a creare un clima, delle atmosfere che in prosa ti devi inventare.
Però comunque la prosa mi piace perché amo il discorso costruito sul testo, sulla parola. Quando c’è un vero testo poetico nella lirica, ecco: lì siamo veramente al massimo.
M: Come nella Poppea, mi viene in mente quel testo.
P: Sì, ma Busenello è un’eccezione! Un libretto meraviglioso. In novembre farò a Ravenna Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi e per fortuna anche quello di Badoaro è bellissimo!
Bisognerebbe avere più tempo quando capita un testo così bello da esaltare in tutte le sue parti.
M: Suppongo che in questi casi la scelta dell’interprete sia importante.
P: È fondamentale! Ci vuole rigore in questo senso: è importante la qualità vocale dell’interprete, evidentemente, ma è importantissima la credibilità del personaggio perché aiuta a costruirlo. Voglio dire che se non c’è nell’immagine già un riferimento preciso al personaggio è difficile qualsiasi adattamento.
M: Nella Poppea credo che tu abbia trovato due donne “adatte”, ma non solo loro, erano adatti tutti i personaggi.
P: Roberta Mameli era perfetta. Infatti abbiamo costruito insieme una Poppea per me ideale.
M: Ho notato che spesso vesti le tue protagoniste con abiti molto leggeri, sensuali, a volte pare che non indossino biancheria…
P: … non ce l’hanno, gliela faccio togliere.
M: Questo mi fa pensare al grande rapporto che penso si crei, “di testa”, tra un interprete e un regista; della fiducia assoluta che un interprete deve riporre nel regista. Questo si notava anche nella successiva Maria Egiziaca,al Malibran…
P: Figurati che non l’ho scelta io Francesca Dotto. Non la conoscevo. In un recente Trovatore a Parma, la sua Leonora non mi aveva convinto. L’avevo trovata fredda, immiserita da un vestitino che non le donava. Quando l’ho incontrata sono stato esplicito con lei, le ho detto “stupiscimi! (e sorride) di te so pochissimo e quello che ho visto non mi ha convinto. Io ovviamente ti do delle indicazioni, tu seguile e poi stupiscimi”.
Ha lavorato moltissimo, si è impegnata a fondo. Ha creduto nel personaggio, e non era facile perché il testo era di una tale bruttezza! Le dicevo “Ma come fai a dare un senso a queste sciocchezze…”
V: …dove Lei è intervenuto con qualche miglioramento letterale…
P: …si! Qualcosa, per rendere alcune parole comprensibili, per trovare qualche spunto poetico. E lei si è fidata! Curiosamente, all’inizio era anche molto riservata, timida, poi è riuscita a liberarsi da tutte le inibizioni ed è cresciuta moltissimo. Per quello che mi riguarda ero stupito e appagato, e lei soddisfatta di quello che era riuscita a fare. La sua interpretazione ha raccolto meritatamente molti consensi.
M: Mi ricordo che alla prima, alla fine, ci fu tra voi due un abbraccio “cercato”, forte.
V: In circa un mese abbiamo visto a Venezia due suoi lavori, la Maria Egiziaca e Lo zoo di vetro: vado poco al teatro di prosa, ma mi ha colpito moltissimo, è un campo completamente diverso … sembrava proprio, come diceva prima, che avesse trovato la musica tra una battuta e l’altra.
P: Sì, e anche nello Zoo s’è dovuto fare un gran lavoro sul testo, perché la traduzione, di Gerardo Guerrieri, della fine anni Quaranta è molto invecchiata come tipo di linguaggio, e l’ho dovuta completamente rivedere per renderla più parlabile, più “attuale”, per aiutare gli attori a dire con più facilità, così come parlerebbero oggi tra loro.
Questo tipo di adattamento la prosa lo consente; in lirica non si potrebbe fare.
M: Questa Turandot, pur essendo uno spettacolo “pulito”, è un grandioso affresco: nei tuoi lavori trovo sempre un forte richiamo alle arti visive, pittura e scultura: quanta è l’influenza di queste arti nel tuo lavoro?
P: Moltissima... Nella prima immagine qualcuno addirittura ha visto una “Città ideale” con riferimento a Laurana. È vero: pur nella diversità, lo schema è quello.
Ma questo, devo dire, nasce da una mia dote naturale: la memoria, soprattutto visiva. Ho cominciato a frequentare i musei da giovanissimo e continuo a farlo. Non faccio foto, ma nella mia testa c’è una sterminata sedimentazione di immagini a cui faccio ricorso in modo naturale quando cerco un’intuizione dopo una lettura, o un ascolto. Quell’immagine che mi viene alla mente, associata ad una specifica ricerca, passa attraverso delle trasformazioni, logicamente. Così non è più Laurana, ma ciò che vi corrisponde.
M: Mi piace molto trovare questi riferimenti o similitudini, come nella Poppea quando ci sono i soldati che dormono e la scena presenta un “mondo” per metà scuro e per metà chiaro: mi pareva la Risurrezione di Piero della Francesca.
P: Ma sì. A proposito di Piero, mentre ero a Pesaro sono andato a Urbino a vedere Federico Barocci: una bellissima mostra al Palazzo Ducale su un pittore eccelso, ma che si conosce poco. Questa è l’occasione per vederlo quasi totalmente riunito: imperdibile mostra!
Mentre mi trovavo nel palazzo e ho rivisto La flagellazione, di Piero, mi sono commosso: per me è puro teatro! E puoi passare ore a perderti nelle interpretazioni infinite di ogni segno.
V: Ho un ricordo, che non so se sia stato una mia fantasia o no: un paio d’anni dopo l’Armide alla Scala sono tornato a Capodimonte e ho visto un quadro del Carracci: ci sono due teste tra il fogliame che a me hanno richiamato moltissimo un passo della messinscena dove c’erano i due uomini, in basso sulla sinistra del palcoscenico … non so se…
P: …indubbiamente a ripercorrere attraverso le immagini il mio lavoro di oltre settant’anni, trova migliaia di riferimenti alla pittura perché è veramente una miniera quella che ho messo insieme, involontariamente, a furia di vedere, di guardare.
M: Quindi queste assonanze nascono da sole? Cioè: tu hai un progetto definito e poi quando ci stai lavorando “apri una casellina dalla testa” e quasi involontariamente estrai quel quadro lì?
P: (risponde ridendo) Non sono Google. Si mette in moto un meccanismo spontaneo e forse ti vengono in mente anche immagini che non ti interessano, prima che arrivi quella buona. È così.
M: Immagino tu stia già lavorando al prossimo Monteverdi per Ravenna.
P: Monteverdi e Purcell; perché saranno due serate in alternanza. Una sera è l’Ulisse e la sera dopo Ode a Santa Cecilia, all’interno della quale si recita Didone e Enea.
Questa è un’idea che avevo già realizzato a Reggio Emilia anni fa, in uno spettacolo di cui si era molto parlato, anche se non si è mosso da lì. La celebrazione avveniva in un conservatorio, come del resto si era fatto all’epoca: Purcell ne era direttore. Ho fatto in modo che mentre si cantavano le lodi a Santa Cecilia, le allieve improvvisassero una recita di Didone e Enea.
Quel che ha reso lo spettacolo irripetibile è il fatto che era illuminato da vere candele! E non si sarebbe mai più potuto fare perché adesso, figurati, non puoi neanche accendere il cerino per una sigaretta. C’è una registrazione, anche se non di buona qualità, su YouTube.
V: Considerato che ci sono degli spettacoli irripetibili, in quelli che sono ripetibili e che vengono ripresi, Lei cerca di rifarli come erano?
P: No. Non lo faccio mai, anzi devo dire che in generale lo spartito che utilizzo per una messa in scena non lo consulto mai per la successiva. Le cose che mi ricordo sono quelle che funzionavano, per il resto si riparte da zero. Tutte le riprese dei miei spettacoli, ogni volta, hanno qualcosa di diverso perché non seguo mai esattamente ciò che era stato fatto: sennò non varrebbe nemmeno la pena di tornarci. Non dico di ricominciare da capo, lo spettacolo è quello, però si può aggiornare; si perde qualche cosa ma si guadagna qualcos’altro; non è mai una replica all’identico, ecco. Anche quando la ripresa non la posso seguire io, faccio in modo che la riprenda qualcuno di cui mi fido. Per esempio Massimo.
M: Massimo Gasparon, tuo stretto collaboratore: in questo lavoro a Torre del Lago, perdonami il termine, hai messo becco nelle cose sue o lui ha messo becco nelle cose tue?
P: Ma noi passiamo la vita a rimbeccarci! E questo va bene perché la discussione, quando è costruttiva, è utilissima. Sennò passeremmo il tempo a dirci “Come sei bravo” e questo non accade mai. In generale si litiga proprio perché siamo in disaccordo su qualcosa. Poi non è detto che si cambi completamente idea, però si riflette, magari si corregge il tiro: comunque serve.
Quando ho presentato l’idea di questo festival Puccini, sapevo che si doveva considerare come un progetto unico; però non avrei potuto farlo da solo e c’era solamente qualcuno con cui avrei potuto dividere il compito, e questi era Massimo. E infatti, abbiamo subito lavorato sull’idea di un dispositivo unico, fisso, con alcune novità: l’ampliamento dello spazio scenico, con una diversa organizzazione, poi il ledwall, la piattaforma girevole e altri interventi significativi. Avevamo in mente di fare cinque spettacoli con sei titoli, tutti diversi l’uno dall’altro. Quindi, usufruendo la tecnica comune a disposizione, mettere in campo le nostre idee, e anche all’interno del nostro compito differenziare in modo che la mia regia di Turandot non somigliasse alle mie altre e che per Massimo Manon fosse diversa da Bohème.
M: E in effetti così è stato, si vede la mano unica per i diversi gruppi di spettacoli e la differenza tra voi. Ho una curiosità: ma come mai la Turandot, contrariamente a quanto era stato annunciato, è stata fatta con un intervallo?
P: Era una mia richiesta, ma non è stato possibile. Per Palumbo era accettabile, ma non per l’orchestra e anche la direzione del teatro, in qualche modo, era favorevole all’intervallo. Ho dovuto cedere, però riconosco che non è stato un danno per lo spettacolo.
V: Quest’anno non ci sono state le opere forse più problematiche, cioè Rondine e Fanciulla del West…
P: Non si poteva mettere troppa carne al fuoco. Perché l’organizzazione, per quanto efficiente, doveva affrontare sei nuove produzioni e non era in grado di affrontarne altre.
M: Tu hai detto che questa stagione è stata una cosa irripetibile, ma per l’anno prossimo ci ripenserai?
P: Non lo so. Non tocca a me deciderlo … continuamente me lo chiedono … mi dicono dei risultati straordinari al botteghino. L’anno scorso avevo detto: mi impegno per l’anno del centenario. Non c’è un impegno per un altro mandato.
V: Certo sarebbe bello avere tutte le dieci opere di Puccini viste in un modo unitario.
P: Se mi dovessero chiedere di continuare, evidentemente … (sorride, lasciando sottendere che forse direbbe “sì”.)
M: Mi piacerebbe vedere una tua Fanciulla del West.
P: Eh!… naturalmente, e qualcos’altro. Purtroppo il Trittico è molto impegnativo e anche La rondine. Inoltre l’organizzazione del Festival vorrebbe riproporre qualche titolo di quest’anno, e giustamente!
Si è fatto tardi, imbrunisce, tra poco avrà inizio Turandot
M: Per concludere: nel tuo meraviglioso Non si può mai stare tranquilli, titolo proverbiale…
P: … che è entrato nel linguaggio …
M: … ti abbiamo conosciuto anche come uomo focoso, “fumino”, se lo possiamo dire
P: Fumino, sì sì …
M: Però con la maturità e con l’esperienza sei cambiato?
P: Non così tanto. Quando ci vuole.
M: Ho una domanda da farti, da parte di un amico: un nome della prosa e uno della lirica che hai nel cuore.
P: Non ti rispondo per una ragione precisa: farei torto a una quantità di amici.
M: Puoi dirmi il titolo di un tuo spettacolo che ami in modo particolare?
P: Mai. Me lo hanno chiesto mille volte: sono stati tutti importanti, anche i meno riusciti. Tutti hanno avuto un peso nella mia formazione e nel mio percorso.
Ci sono spettacoli che hanno avuto più successo di altri e sono documentati e registrati e si rivedono su YouTube (pensa a qualcosa e ride, evidentemente divertito): ma sai che ho scoperto anni fa che ho due Fan Club a Seul? A Seul dove non ero mai stato. E lì, dopo, ho avuto un festival a mio nome, hai capito? Ci sono cose che capitano nella vita e che mai ti saresti aspettate.
M: Se tu dovessi interpretare un personaggio, chi vorresti essere?
P: Me stesso. Chi, sennò? cerco di farlo al meglio, ma un altro: da che parte si comincia? Tu vorresti essere qualcun altro?
M: Sulla scena vorrei essere Floria Tosca.
P: Ah, ma proprio lei, Floria Tosca o una cantante che fa Floria Tosca?
M: Non lei, una cantante che fa Floria Tosca!
P:Ma poi come te la cavi? Come la canti?
M: Ma io finirei diversamente; innanzi tutto non ammazzerei Scarpia e fuggirei con lui sulla tartana…
P: (ride, ride) …ah, vedi?! Quindi meglio Scarpia di Cavaradossi? Questo è interessante.
M: Cosa vorresti fare da grande?
P: Ci devo pensare!
Intervista condotta il 17 agosto 2024, in collaborazione con Vittorio Mascherpa.
Marilisa Lazzari