Trieste - Mercoledì 21 maggio la Sala Tripcovich è stata intitolata a Raffaello de Banfield, scomparso qualche mese fa. Fu proprio il musicista triestino ad individuare questo sito, che era in rovina trattandosi di una stazione per autocorriere dismessa, ed a contribuire poi finanziariamente ai lavori che trasformarono il rospo in principe, vale a dire da un luogo degradato e socialmente inutile a un non luogo dove l’immaginazione e l’Arte sono state di casa per cinque anni: tanto durò la ristrutturazione del Teatro Verdi, dal 1992 al 1997. Ovviamente anche dopo questa data, la struttura ha continuato ad ospitare iniziative musicali e culturali in senso più ampio.
La decisione di mantenere la destinazione culturale del sito è stata presa ieri in consiglio comunale, ma sembra sia una specie di definizione sub judice, nel senso che la sala rimane a disposizione a tempo indeterminato per le attività del Verdi ma sino al 2010, quando prenderà il via un progetto di recupero di una zona adiacente. Insomma pare un compromesso, una specie di non decisione presa per accontentare momentaneamente qualcuno strizzando l’occhio a qualche interlocutore nascosto nell’ombra. Ora, a prescindere dall’interesse particolare che riveste per i triestini questo argomento, forse è il caso di esprimere qualche opinione di respiro più ampio.
Io, in linea generale, se dovessi scegliere tra abbattere un polo culturale che funziona o sostituirlo con qualcosa che risponde solo a logiche mercantili non avrei mai alcun dubbio. Voglio dire, possibile che non si capisca a nessuna latitudine che la cultura, e non mi riferisco solo alla musica lirica, dovrebbe avere una corsia preferenziale nei programmi di chi ci governa a qualsiasi livello, dall’amministratore di condomini al Presidente del Consiglio? Eppure dovrebbe essere evidente a chiunque che una buona amministrazione pubblica non può prescindere dalla cultura in senso lato: un cinema, un teatro, una sala da concerto, un circolo bocciofilo, sono tutti elementi d’aggregazione indispensabili in uno scenario collettivo che lamenta nella perdita delle radici culturali il motivo principale di decadenza. Semmai, laddove questi spazi esistono, andrebbero potenziati e resi più fruibili e duttili, non certo sostituiti con un parcheggio o con un centro commerciale e, lo ripeto, non mi riferisco a Trieste in particolare. Se si vuole garantire, o perlomeno programmare con qualche possibilità di successo, la sopravvivenza di una comunità, è necessario sostenerne la coesione a tutti i livelli, integrando i piani economici a medio e lungo termine alla memoria storica del territorio, che è costituita da canzoni popolari, da poesie, da leggende metropolitane e, perché no, di Arte in generale. In questo modo, come afferma felicemente Claudio Magris, si evita ogni asfittica endogamia che i circoli chiusi, frequentati da persone che hanno in comune solo un interesse, anche meritorio, non possono prevedere perché per loro natura elitari ed esclusivi Favorire la comunicazione intellettuale tra persone d’estrazione sociale diversa, fare tesoro delle peculiarità soggettive e considerarle una risorsa, e non un ostacolo, significa arricchire potenzialmente ognuno di noi.
Tra il momentaneo silenzio di uno spazio culturale polifunzionale e il clangore di un parcheggio, io scelgo il silenzio. Quando quello stesso spazio si riempie di musica o di parole, posso esercitare il diritto alla sospensione della realtà che è insito in ogni forma d’Arte, che nutre la mia immaginazione e la mia creatività, ed affrontare il domani con un sorriso di speranza sulle labbra.
Paolo Bullo