«…un ragazzo piccolo, modesto, ha dimostrato di possedere una spiccata tendenza per la musica. Interpreta con un sentimento notevole gli autori più disparati e ci ha fatto sentire Beethoven, Chopin, Schumann, Granados e Grieg, tutti ugualmente compresi. Un critico pignolo potrebbe dire senza dubbio che… Ma Zedda ha sedici anni, ha davanti a sé un avvenire musicale favorevole e si può pronosticargli fin da ora che arriverà lontano».
Quella che credo sia la prima recensione riguardante il musicista Alberto Zedda, scomparso ieri a Pesaro, si legge nel secondo numero (21 giugno 1945) de «La Zanzara», il giornalino d’un gruppo di studenti del Liceo-Ginnasio Giuseppe Parini di Milano che vent’anni dopo assurgerà a caso nazionale. Il diciassettenne (recte…) allievo della “Eton lombarda”, in cui s’erano “maturati” Gadda e Cesare Cases, e in séguito si maturerà Maurizio Pollini, era comparso la domenica precedente tra gli esecutori d’un concertino a più mani e più stili. Il commento, siglato «s.m.», appare oggi acuto e preveggente proprio nel sottolineare la versatilità d’ingegno e di gusto che accompagnerà Zedda per tutta la sua lunga vita. Se oggi il suo nome è immediatamente associato da quasi tutti alla filologia rossiniana, in realtà la sua formazione aveva unito la solida base classica fornitagli dal Liceo a un’esperienza musicale e umana piuttosto vasta, che aveva portato l’allievo di Votto e Giulini a vincere, nel 1957, il Concorso internazionale per giovani direttori della RAI e lo porterà ad essere invitato per la prima volta a Berlino per dirigere proprio un Autore e un’opera che potrebbero apparire a lui estranei: Madama Butterfly. Sua anche la registrazione più vivace della Bohème di Leoncavallo, opera senza dubbio minore ma molto misconosciuta. Non so precisamente a quando risalga, ma di certo all’inizio degli anni Sessanta, il primo ricordo che ho di Zedda sul podio dell’Angelicum di Milano, alle prese, guarda caso, con il Divertimento per archi di Bartók; allo stesso tempo risale la mia conoscenza d’un pionieristico long playing registrato nel decennio precedente, con due celebri concerti per archi di Vivaldi e le loro rielaborazioni bachiane, in cui uno sconosciuto Claudio Abbado suona il quarto clavicembalo sotto la bacchetta dell’amico cinque anni maggiore…
La vocazione rossiniana era già comunque evidente non solo nel titolo dell’esordio in teatro, il Barbiere di Siviglia, ma nella vicenda che Zedda racconterà nelle sue interessantissime (e molto bene scritte) Divagazioni rossiniane, pubblicate nel 2012 e raccomandabili a chiunque ami la musica. Sull’onda di quei primi successi Alberto era stato invitato a dirigere negli Stati Uniti l’opera buffa allora più celebre del repertorio, e il tempo molto veloce da lui desiderato nel Finale primo sembrava cozzare contro l’ineseguibilità di fatto, a quel metronomo, della parte del primo oboe… Qualche mese dopo, preparando di nuovo l’opera per una produzione RAI, il giovane direttore ebbe tempo e modo di confrontare quel tratto con l’autografo rossiniano, che si conservava e conserva a Bologna, scoprendo che il passo “ineseguibile” era stato destinato da Rossini non all’oboe ma al molto più agile ottavino; incuriosito da questa prima “scoperta”, Alberto si trovò in breve ad avere riempito d’annotazioni e correzioni i costosi materiali d’orchestra che gli erano stati affidati. La produzione non ebbe poi luogo, i materiali tornarono in magazzino e un bel giorno Casa Ricordi richiese un danno enorme per la loro “deturpazione”. Zedda racconta che, colto da sgomento, si rivolse a un compagno di scuola divenuto avvocato, che gli suggerì di chiedere un compenso, non meno alto, per l’accuratissimo lavoro svolto… Dal successivo incontro con i responsabili dalla Casa il giovane “imputato” uscì con l’incarico di preparare la prima edizione critica del Barbiere, che sarebbe servita alla produzione scaligera del 1969 (“allora facciamola noi prima che ce la faccia sotto il naso qualcun altro”, sembra abbia concluso il mitico ingegner Valcarenghi...). Il resto è cronaca, fino ai nostri giorni.
Buon amico di miei cari amici, lo conobbi di persona alla fine degli anni Novanta, dopo un Comte Ory a Montpellier. Resta per me una delle persone piú simpatiche e amanti della vita in cui mi sia mai imbattuto, anfitrione e commensale molto piacevole, conversatore non soltanto cólto, ma ricchissimo di quella distaccata ironia che un tempo distingueva i Milanesi, anche se d’altra origine. Zedda fu sincero con sé stesso e con l’interlocutore al punto di rispondere semplicemente al mio rilievo, fattogli una sera a cena sulle colline del Genovese, che una certa esecuzione era andata molto in modo diverso il venerdì sera e la domenica pomeriggio senza che evidentemente nel mezzo ci fosse stato un nuovo lavoro di prove: “dipende tutto solo da me, dal mio gesto…”. E ne avemmo conferma dal fulminante attacco, una sera alla Deutsche Oper di Berlino, della sinfonia della Scala di Seta: qualcosa l’aveva contrariato poco prima e l’inizio dell’opera fu lo scarico, retto e reso molto bene dall’orchestra, di quella tensione… Poi l’operina del giovane Rossini prese l’andamento distaccato e sereno che la distingue.
A fianco di Rossini, l’altra “grande passione” di Zedda fu Monteverdi: alla sua registrazione della Poppea con una compagnia e un’orchestra di giovani seppe dare un respiro narrativo amplissimo, e negli anni Novanta riuscì a salvare uno spettacolo scaligero nato, per così dire, sotto maligna stella; i suoi risultati migliori con questo titolo risalgono, a parere non solo mio, al ciclo di rappresentazioni madrilene nei primi anni Duemila.
L’opera amatissima è stata per lui Semiramide: indimenticabile la grandiosità d’una sua serata, anch’essa berlinese, nel maggio del 2007, protagonista Iano Tamar, una delle sue “scoperte” pesaresi. Un paio di giorni dopo insistette perché andassimo per il Mittagessen in un certo locale sulla Sprea, dove si ricordava d’avere mangiato un dolce che gli era piaciuto molto: raramente m’è successo di sentire qualcuno ironizzare così su sé stesso, come fece lui quando fu informato che proprio quel giorno il pasticciere aveva ottenuto un giorno di riposo. Taccio di quella volta, erano i giorni della Pietra del paragone nel 2003, che comparì tardissimo a pranzo nella sua bella casa sopra Pesaro, informando davanti a tutti la moglie che si sarebbero dovuti mettere a fare economia perché poco prima aveva litigato con Gossett e l’avrebbero di certo licenziato…
Addio, Alberto: dev’essere stato bellissimo amare la musica come te!
Vittorio Mascherpa