Il 6 settembre 2007 Luciano Pavarotti veniva strappato alla vita da una terribile malattia. Oggi, a distanza di dieci anni vogliamo ricordarlo riproponendovi questo bel pezzo che, in quella tragica occasione, scrisse per noi Enrico Stinchelli.
Vi sono precisi limiti dati alla parola, tali da produrre in me lo stesso effetto che denunciava apertamente Jean Genet, scrittore che della parola fece un vero culto, al limite dell’ossessione perfezionistica: “Sono tradito dal dover scegliere le parole.” Il disagio che esprime così l’autore di “Querelle de Brest” è esattamente il mio disagio in questo momento, dovendo scegliere le parole adatte a commentare la scomparsa di Luciano Pavarotti.
“Vorrei essere ricordato come un tenore d’Opera”. Così scrive Pavarotti sul suo sito e così mi disse al termine di una lunga intervista a Pesaro, quasi presagendo il carnevale mediatico che avrebbe scatenato la sua scomparsa, con gli inevitabili servizi dei Tg che lo piangono come “rockettaro”, come un cantante pop, alla stregua di Lucio Dalla, di Zucchero, di Orietta Berti. Con tutto il rispetto per questi simpaticissimi signori e per la musica che rappresentano. Era fatale che succedesse: i “Pavarotti International” trasmessi urbi et orbi per un decennio, la passerella in puro stile cross-over dei vari protagonisti, da Bocelli a Sting, dalla Mannelli a Grace Jones, sono stati una sorta di piccola rivoluzione, di cui - ben inteso - Luciano andava fiero.
In fondo la stagione delle grandi rappresentazioni operistiche era tramontata; Luciano era arrivato al traguardo dei trenta e passa anni di carriera in grandissima forma, la voce è rimasta intatta fino all’ultimo, salvaguardata dall’eccezionale qualità e da una tecnica altrettanto eccezionale. Il cross-over è stato un grande gioco senile, fiorito come d’incanto dai medley dei Tre Tenori, da quel Concertone di Caracalla che viene giustamente considerato come il giro di boa, il passaggio dal Tenorissimo a Big Luciano. Pavarotti diventa, nella chiassosa piazza di Modena, eroe suo malgrado di folle oceaniche, composte da giovani e giovanissimi che non si sognerebbero mai di entrare in un teatro ma che si esaltano davanti a quel pingue signore in frak. Tenore lo è stato sempre, mantenendo la voce impostata anche in brani così lontani dal genere lirico, a rischio di esecuzioni non proprio impeccabili. Come si possono scordare i vocalizzi di “Certe notti” con Ligabue o “Miserere” con Zucchero, sempre tutelate musicalmente dal fido Leone Magiera, talvolta sorpreso dalla telecamera in maniche di camicia, mentre si sbraccia per dare l’attacco giusto al grande amico. E’ ancora Leone Magiera a dirigere l’ultima esecuzione pubblica di Pavarotti, che incredibilmente è ancora il suo hit favorito: “Nessun dorma” dalla Turandot di Puccini, nello stadio di Torino, appena un anno fa. Non è affatto un caso che sia proprio l’ultima opera di Puccini, l’incompiuta, a siglare la più straordinaria parabola artistica mai compiuta da un cantante italiano. Ed è sintomatico quell’ultimo “Vincerò”, in cui il leggendario sorriso di Luciano è velato d’una infinita malinconia: è un addio, non solo al canto ma alla vita, che al canto è stata interamente consacrata.
Ho incontrato Pavarotti in svariate circostanze, ho parlato con lui tante volte, ho lavorato con lui come regista televisivo di un grande evento a Montecarlo, nel 2002, “Pavarotti canta Verdi”, ed è stata quella l’occasione per frequentarlo al di là delle consuetudini. Era un uomo che cercava in ogni modo di farsi vedere sorridente e gioviale, ma in fondo non lo era, anzi, mi è parso un uomo molto triste, malinconico, con forti conflitti interiori. Il rapporto con il cibo innanzitutto. Da giovane era un bellissimo ragazzo, robusto sì ma di muscoli, un atleta. L’attività di cantante lirico fu deleteria per il suo fisico: mangiate luculliane dopo gli spettacoli, quando il metabolismo è in pratica fermo, abboffate di dolciumi e bulimie nevrotiche, per alleviare l’ansia da prestazione canora, le tensioni di una Prima importante. Pavarotti non tardò a ingrassare in modo impressionante; negli anni Settanta giunse a sfiorare i 200 chili, e forse li superò persino. Un mese l’anno andava a Merano, per farsi depurare e drenare da un noto Guru dei Centri Benessere. Palliativi. “Mangia! Mangia!”, e fissandomi con sguardo cattivo mi porgeva dei giganteschi cannoli rigonfi di crema, alle cinque del pomeriggio. Se rifiutavi… ti odiava. Ma lui non si amava certo, detestava essere ripreso dalle telecamere per intero, voleva solo il primo piano stretto. Attorno a lui una schiera, una vera e propria corte: ricordo Thomas, un sergente di ferro tedesco che era preposto a organizzare ogni dettaglio per le sue entrate in scena, i suoi sgabelli, le sue acque minerali collocate in scena, persino un buffet dietro il palco con tartine al salmone, formaggi, prosciutti, frutta in abbondanza. “Il Maestro farà 8 metri, al massimo, per raggiungere il proscenio, non un metro di più.” Questo era l’ordine perentorio di Thomas, guai a sgarrare. Poi le donne, tante donne. Pavarotti amava circondarsi di donne come un sultano, un pascià. A suo modo fu un gran seduttore. Nel brutto film “Yes Giorgio!”, grande insuccesso cinematografico, Pavarotti compare come la caricatura del tenore italiano, tutto cucina e donne. Eppure, quella pellicola trash è molto veritiera e Luciano non esita a recitare la sua parte con estrema naturalezza, come quando alterna le effusioni con l’amante tra un piatto e l’altro. Rubicondo, mangione, eccessivo… poi apre bocca ed è l’oro zecchino a farsi suono, come per una incredibile alchimia della natura. Luciano amava alla follia tre ruoli: Nemorino, Riccardo del "Ballo in maschera" e Rodolfo nella "Bohème", in cui ha lasciato testimonianze difficilmente eguagliabili. Io aggiungerei tranquillamente il suo Bellini, il suo Donizetti, il Verdi dei Lombardi, Rigoletto, Trovatore, Traviata, Ernani, la produzione Decca degli anni d’oro, in cui non era solo la magnifica voce a far sfoggio quasi smodato della sua opulenza ma l’intonazione, la dizione, lo schietto fraseggio, la personalità. Con Pavarotti, il Belcanto raggiunge i massimi vertici, ma soprattutto arriva a tutti in una forma chiara, limpida, direi moderna. In questo Pavarotti segue il tracciato di Gigli, Schipa ma soprattutto eredita lo scettro di Di Stefano, il suo grande idolo. Pavarotti ha la comunicativa e la simpatia del tenore che va dritto al cuore, non la gelida compostezza della voce “impostata”. Il suo controllo tecnico è assoluto, da campione, ma aggiunge a quello l’arma della perfetta dizione: in Pavarotti non si perde una sillaba, mai, in qualunque opera o brano musicale di ogni genere che abbia cantato.
Pavarotti scompare a 50 anni dalla morte di Gigli, a 30 esatti dalla Callas, a 25 da Del Monaco, altra titanica figura del tenorismo mondiale. Un caso, si dirà.
Balzac suggeriva che “il caso è Dio”.
Enrico Stinchelli
Enrico Stinchelli